Peyton Manning e Tony Dungy, da ieri notte, non sono più dei perdenti…
Il quarantunesimo Super Bowl è storia, gli Indianapolis Colts ce l'hanno fatta: dopo aver inseguito questo sogno a lungo, con l'etichetta di "chokers", o perdenti se preferite, cucita addosso da un'eternità ieri notte tutta l'organizzazione guidata da Tony Dungy, il primo coach di colore ad godere di tale onore, è esplosa festante, consapevole di aver conseguito l'obiettivo contro ogni pronostico, contro ogni singolo detrattore che aveva definito questa difesa inadeguata, questo quarterback buono solo per la regular season, questo allenatore troppo gentile nei suoi modi infinitamente educati per riuscire a portare in trionfo una qualunque squadra professionistica.
Peyton Manning, Mvp della manifestazione, finalmente non dovrà più essere paragonato al grande Dan Marino, una leggenda rimasta priva di argenteria, e la scimmia gigante che giaceva sulla sua spalla si è levata in fuga proprio mentre il suo testone si agitava compiaciuto, mentre le sue mani stringevano per la prima volta in carriera il trofeo più prestigioso di questo sport, il Vince Lombardi Trophy.
Quest'ultima edizione del Super Bowl sarà ricordata a lungo, sia perché sceneggiatura ideale di una storia degnamente coreografata dal destino, sia perché molti sono stati gli episodi che hanno portato ad improvvisi ed incontrollabili capovolgimenti di fronte, a causa della pioggia battente entrata anche lei a far parte delle inconsuetudini della Finalissima; della lunga serie di "prime volte" che hanno caratterizzato l'incontro conclusosi qualche ora fa, non ultima arriva la soddisfazione per un dome team, il cui stadio di casa ha un bel tetto chiuso sopra di sé, di vincere un Super Bowl in condizioni metereologiche naturali ma avverse, fatto che aggiunge da sé un ulteriore pizzico di leggenda all'impresa dei ragazzi di Dungy.
Ragazzi che ce l'hanno messa tutta, che sono riusciti a vincere per il loro coach, che hanno affrontato diversi ostacoli nel loro cammino, affrontando e sconfiggendo la loro paura più grande, quei New England Patriots che avevano dato loro enormi dispiaceri in passato: e probabilmente consci di aver fatto grandi progressi, i Colts hanno preso le misure anche ai Chicago Bears, ai quali vanno comunque i meriti di una stagione straordinaria, sconfiggendoli con armi poco convenzionali al loro stile abituale come il possesso, le corse, i lanci ad alta percentuale e soprattutto una difesa trasformatasi da colabrodo in reparto capace di concedere pochi varchi di luce alla squadra di Lovie Smith, tradita dalla versione meno gradita dello stesso quarterback che non senza difficoltà li aveva portati fino a Miami, quel Rex Grossman autore dei principali errori costati la sconfitta ai Bears.
Di sicuro ad Indianapolis hanno imparato a reagire alle avversità , anziché farsi soffocare da esse: e se davamo per spacciato Manning due settimane fa dopo il doloroso intercetto riportato in meta da Asante Samuel, altrettanto si poteva sostenere dopo una partenza subito in salita, a causa di un ritorno del kickoff di apertura da parte del solito Devin Hester (evento mai verificatosi in Finale) al quale si era presto aggiunto l'intercetto arrivato sul primo lancio profondo dei Colts, inteso per Marvin Harrison ma preda di Corey Harris, dopo che la linea offensiva aveva commesso due penalità consecutive.
E se pochi si aspettavano un primo quarto così prolifico, dato che da cinque edizioni non si segnava nel periodo di apertura di un Super Bowl, ecco arrivare la dura punizione da 53 yards per l'errata copertura di Danieal Manning, pizzicato a coprire il tight end al posto di Reggie Wayne (2 rec, 61 yards), lasciando che l'indisturbato il numero 87 di Indy, ben felice di trovarsi a chilometri di distanza dall'avversario più vicino, fornisse una risposta immediata agli eventi negativi che avevano condizionato l'inizio dei suoi, nonostante l'effetto della pioggia avesse fatto scivolare l'ovale dalle mani di Hunter Smith mancando il conseguente extra point.
In quello che è stato un vero e proprio festival del turnover, le squadre dovevano per forza limitare al minimo gli errori per averla vinta, e così alla fine è stato: per ben due volte, infatti, si sono verificati fumble in azioni consecutive con un cambio di possesso immediato, con Indianapolis a pagare dazio per prima. I Bears avevano infatti convertito turnovers in punti meglio degli avversari all'inizio, approfittando dell'inaspettato possesso per trovare la corsa più lunga di carriera di Thomas Jones, 52 yards delle 112 totali in un sol colpo, e permettere così a Grossman (20/28, 165 yards, TD, 2 INT) di lanciare con precisione un TD pass per Muhsin Muhammad su una traiettoria corta, senza immaginare che così vicini alla endzone gli Orsi non sarebbero più tornati. Tutto ciò senza dimenticare l'ennesimo fatto straordinario, che aveva visto le due squadre arrivare al quarto turnover complessivo del solo primo periodo, grazie ad un colpo inferto dal grintoso Bob Sanders ai danni di Cedric Benson, poi infortunatosi e non più rientrato in partita.
La forte difesa di Chicago ha potuto poco contro la strategia messa a punto da Dungy ed i suoi assistenti, una strategia che aveva puntato con successo ad annullare l'effetto dei blitz di Urlacher (sempre il migliore dei suoi) e compagni con Manning (25/38, 247 yards, TD, INT) a lanciare in velocità e quasi sempre dalla shotgun per guadagni corti ma efficaci, sfruttando la serata felice di Joseph Addai, fondamentale destinatario di ogni singolo screen che partiva dalle mani del quarterback e prezioso nel trovare varchi anche sulle corse. Se le 143 total yards prodotte dal rookie da Lsu fossero state premiate con il titolo di miglior giocatore della serata, nessuno avrebbe avuto da discutere.
Con drive prolissi e particolarmente costosi per le risorse fisiche della difesa avversaria i Colts hanno trovato il primo vantaggio della serata, quello che non avrebbero più abbandonato, con una meta da una yarda del consistente Dominic Rhodes (113 yards, TD), sapientemente alternato al più giovane collega al fine di mettere in campo gambe più fresche contro un reparto in debito d'ossigeno, e se già il tempo di possesso era particolarmente avverso ai Bears, immobilizzati da una serie di 3 & out, ancor di più lo era il parziale di yards a favore dei Colts del solo secondo quarto, (conclusosi con un sorprendente errore di Vinatieri dalle 36 yards) un eloquente 139-15.
La strategia di Dungy ha funzionato a dovere anche nel terzo quarto, con altri due field goal a segno per il grande Vinatieri (per lui record di punti in una singola edizione di playoffs) contro soli 3 punti ad opera del piede di Robbie Gould; il lavoro spezza-fiato dell'attacco guidato da Manning ha continuato il suo effetto, sortendo i primi evidenti segnali di declino riscontrabili in placcaggi mancati e penalità inutili comminate a Chicago, sempre ferma in attacco a causa sia dei pasticci di Grossman che della consistenza della front seven avversaria: e proprio in occasione del terzo periodo sono arrivati anche i primi sacks ai danni dell'ex regista di Florida, tra l'altro consecutivi, ad opera rispettivamente di McFarland e del specialista Mathis, utili a frustrare ulteriormente un reparto che continuava a non conoscere un ritmo offensivo degno di tale definizione, e che non poteva contare su null'altro, con una difesa sulle ginocchia e con gli special teams guardati a vista dopo l'episodio iniziale.
Costretto quindi a forzare qualcosa, il buon Rex ha commesso gli errori decisivi regalando il pallone del definitivo 29-17 al secondo anno Kelvin Heyden (in campo al posto dell'infortunato Nick Harper), buono per un intercetto riportato in meta, per poi chiudere con un episodio analogo ma senza segnatura con Bob Sanders quale beneficiario di un brutto lancio in doppia copertura destinato all'insesistente Bernard Berrian. 5 sono stati i turnovers a carico dei Bears, la stessa squadra che guidava la Nfl per palloni recuperati dalla propria difesa, ed 11 i primi downs collezionati, ben poca cosa rispetto ai 24 collezionati da Manning e compagni, capaci di portare Chicago alla resa con una serie di corse chiamate ancora per Rhodes finite per consumare molto, troppo del tempo rimasto da giocare.
"Sono davvero orgoglioso di questo gruppo di persone" ha detto Dungy "abbiamo preso un brutto colpo all'inizio con quel touchdown a freddo di Devin Hester ma ci siamo seduti a parlare dell'accaduto, abbiamo riflettuto ed abbiamo reagito. E' stato come affrontare una tempesta, ma dovevamo affrontarla e superarla. I ragazzi hanno lavorato duramente tutto l'anno e meritavano questo successo, come lo meritavano l'organizzazione e la città . Certo, mi sento orgoglioso di essere anche il primo coach Afro-Americano a vincere il Super Bowl e dedico tutto questo a chi mi ha preceduto, che era più qualificato di me per riuscire nell'impresa ma non ha mai avuto la possibilità di affrontarla.".
Gli fa eco Peyton Manning:"Non è facile trovare le parole adatte per descrivere un momento come questo, sono semplicemente orgoglioso di far parte di questa squadra, una squadra che è stata capace di fare gruppo e crederci fino in fondo, una squadra che ha vinto per il suo coach, Tony Dungy."
E come sempre il gruppo sta alla base di tutto, in particolar modo quando si vince: chi avrebbe mai detto che i Colts avrebbero fatto così tanta strada dopo essere stati ridicolizzati da Fred Taylor e Maurice Drew Jones, dopo aver perduto contro i Texans, dopo aver giocato delle pessime partite offensive sia contro i Chiefs che contro i Ravens, dopo essere stati pesantemente sotto contro i Patriots, dopo aver deciso che Edgerrin James e Mike Vanderjagt erano liberi di scegliersi un'altra squadra per cui giocare. Ma soprattutto nessuno poteva prevedere che le vittorie sarebbero arrivate con una completa e radicale trasformazione dei credo della squadra, arrivata a giocarsi il tutto per tutto con l'apporto di una difesa nemmeno lontana parente di quella vista in regular season e con un attacco non più basato esclusivamente sui lanci profondi di Manning.
Il gruppo ha dimostrato di averci sempre creduto, di non aver mai mollato nelle situazioni di difficoltà , neanche quando sembrava quasi scontato che sarebbe stata un'altra annata deludente, plasmata da eccellenti numeri di regular season e da uscite premature nei playoffs.
Proprio per questo è un piacere maggiore vedere un leader affermato come Peyton Manning salire su quel carro dei vincitori che lo consacra ulteriormente come futuro ed immortale Hall Of Famer, vedere il suo centro, Jeff Saturday, invitare tutti alla resa dei conti dopo l'immenso lavoro della sua linea offensiva di un'intera stagione senza le luci della ribalta addosso, osservare Bob Sanders, colui che ha cambiato questa difesa con il suo impatto, baciare il trofeo con orgoglio, vedere Dwight Freeney con il classico cappellino con la visiera storta, ma con una bella scritta a ricordare il premio appena raggiunto.
Ed ora che la missione è stata compiuta, siamo sicuri che nessuno avrà più nulla da ridire.