Tom Brady (12) e Peyton Manning: di nuovo loro, uno contro l'altro, per raggiungere il Super Bowl di Miami.
Non molti avrebbero pronosticato questo championship di AFC dopo aver buttato un occhio sulle partite in programma nei Divisional della settimana scorsa. I Colts a Baltimora, i Patriots a San Diego, tutti in trasferta contro i due migliori record della più dura tra le due conference. Et voilà , il capolavoro è fatto, con un colpo di mano Indianapolis e New England si giocheranno l'accesso al Super Bowl XLI dopo essere stati in vacanza, chi in California, chi nel Maryland, ed aver spento i sogni di due squadre che in stagione avevano stupito per gioco, equilibrio, compattezza.
Ci sarebbe da sedersi e parlare ore del rammarico dei Ravens, trafitti da un cinque su cinque di Adam Vinatieri e, soprattutto, di quello dei Chargers, dominatori di una gara difficile poi gettata alle ortiche per i più disparati motivi. E' stato detto più volte in questi anni, i Patriots li devi buttare al tappeto, se li tieni alle corde e l'ultima cartuccia può spararla Tom Brady sono dolori. Per tutti, anche se il kicker si chiama Stephen Gostowski e non Vinatieri (sì, sempre lo stesso). La classica in un certo senso più desiderata dai fan NFL è quindi servita, il dominio dei Patriots contro la voglia di rivincita (immensa) dei Colts, ma soprattutto Bill Belichick contro Tony Dungy e (fiato alle trombe) Peyton Manning contro Tom Brady.
La vita in questi playoffs non è stata troppo semplice per i due quarterbacks, i veri punti fermi di due squadre attraverso i quali passeranno e si incroceranno i destini delle due formazioni in campo. Manning, al solito, è arrivato in postseason per cominciare a perdere la brillantezza e l'efficacia che da sempre lo accompagnano in stagione regolare. Braccione e rapidità di lettura vanno in letargo con l'arrivo di gennaio, ed il buon Peyton si è trovato a vincere due gare lanciando finora 5 intercetti con una sola meta servita a Reggie Wayne nella sfida di wild card contro Kansas City. Contro i Ravens, come detto, ha fatto tutto lo specialista del settore, Mr. Playoffs Vinatieri, che come nulla fosse ha sparato cannonate da ogni dove sulla povera squadra speciale di Baltimora.
L'ultima sfida tra le due grandi porta ottimi ricordi a Manning, un 27-20 nel novembre del 2006 che risarciva, in parte, le beffe subite in postseason negli anni precedenti; così come fu piacevole quell'ultima sfida di regular season giocata al RCA Dome (2005) dove i Colts strapazzarono (40-21) gli avversai. E questo dà fiducia a Indianapolis, perché se nella sfida di pochi mesi fa è stata una festa poter espugnare Foxborough, è inutile dire che, in questo particolare periodo dell'anno e sempre dalle parti di Boston, sono sempre stati dolori. Ultima sfida per la stagione 2004, il meraviglioso attacco dei record dei Colts si blocca sotto la neve del Massachusset e Brady divora tempo e avversari con un 20-3 che porta la sua firma anche in un rushing TD. L'anno prima non era andata meglio ai ragazzi di Dungy, con il 24-14 per Belichick e figli proprio in un Championship.
Dopo quanto accaduto un anno fa, però, non si può più incolpare il mal di trasferta dalle parti dell'Indiana. Se persino il pesantissimo 41-0 subito a NY dai Jets nel gennaio 2003 era attribuibile al freddo, la caduta contro gli Steelers di dodici mesi fa ha una sola spiegazione e risiede nella psiche dei giocatori, con Peyton Manning, leader e trascinatore, in testa. Da sempre squadra poco equilibrata, con un attacco immenso ed una difesa piuttosto debole, i Colts stanno provando ad andare contro ad ogni pronostico disinteressandosi ormai di come giochi e quanto produca il proprio leader da dietro il centro.
La difesa, motivatissima, sta giocando un buon football, senza strafare, ma riuscendo a limitare al meglio gli uomini più pericolosi degli attacchi avversari. E' andata male a Larry Johnson con i suoi Chiefs, fermato a 32 yards con una sola meta concessa su ricezione a Anthony Gonzales. Ed è andata malissimo a Steve McNair (173 yards, 2 INT) e Jamal Lewis (53 yards) bloccati a zero mete sabato scorso. Se la difesa regge c'è da stare tranquilli, l'attacco può produrre ancora molto a condizione di recuperare Manning, il quale si trova di fronte all'avversario più temuto, ma anche di fronte a una sfida che vale la carriera: dimostrare di non essere solo un one man show da highlights in regular season, di non essere capace solo di mettere numeri su numeri a suon di audibles e sbracciate ma di essere anche in grado, nel momento giusto, di prendersi in spalla la squadra e portarla finalmente fino in fondo.
Domanick Rhodes e Joseph Addai non sembrano ancora in grado di riprodurre le giocate su corsa viste con Edgerrin James fino al 2005 ma si stanno dannando l'anima per far tornare i conti, e quello spettacolo di ricevitori lì davanti, da Reggie Wayne a Dallas Clark, fino al mito Marvin Harrison è pronto per essere lanciato verso la storia.
La maledizione di Baltimora è stata vinta, contro il malocchio, la rabbia e la voglia di rivincita di una città sentitasi derubata nel 1983 della cosa più preziosa. Ripartire da questo punto di orgoglio può essere fondamentale, una volta dato per scontato che, ora come ora, non conta giocare al freddo o al caldo, al chiuso o all'aperto, di domenica o di sabato. Conta vincere. E per farlo serve che Manning si unisca all'entusiasmo messo in campo finora dai suoi compagni.
Il "però" per eccellenza, quel "ma" che spunta alla fine di ogni discorso come questo ha un nome ed un cognome e, in questo caso, dal 2001 a oggi è valso un po' per tutta la NFL salvo rare eccezioni. L'incognita, ormai molto poco sconosciuta, ha un nome ed un cognome: Bill Belichick. Architetto di una delle squadre più forti di sempre ha trovato in Tom Brady il miglior condottiero di una intera generazione di quarterback, è sopravvissuto nel corso degli anni a infortuni, giocatori finiti in free agency, assistenti partiti all'improvviso, di tutto e di più. Risultato? Tre Super Bowl tre in cinque anni con la concreta possibilità di fare quattro su sei come solo agli Steelers della Steel Curtain anni '70 è riuscito (1974-75-78-79) in precedenza.
Li conosciamo, no? O meglio, pensiamo di conoscerli, e quando ci sembra tutto scontato questi rimettono fuori la testa e si beccano tutti i prime time televisivi di inizio anno. Talmente bravi e perfetti in passato da risultare odiosi, diciamolo, senza offesa per i numerosi tifosi. Eppure il football vive di questo, si ciba di chi si avvicina alla perfezione, e più si dà continuità a un'espressione di gioco come questa più si vince. Gioco semplice, rapido, capacità di servire il pallone in ogni zona del campo, di controllare l'orologio, di sbagliare poco e quando non tutto è perduto. Capitalizzare ogni errore avversario.
Lo abbiamo visto, increduli, nella domenica notte italiana, assonnati e stanchi e già pronti a vedere la vittoria dei Chargers, partiti in quinta trainati dal proprio Lider Maximo LaDainian Tomlinson. Brady a tre intercetti, LT che segna il 21-14 a metà del quarto periodo nonostante uno sbandamento dei suoi, la partita che sembra andare verso fine certa, i Patriots alle corde. Sì, alle corde come detto poco sopra. E appena riprende fiato, appena gli si mostra il fianco, Brady arriva e punisce.
Un Td pass, poi un drive vincente, l'ennesimo in carriera, per il calcio di Gostowsky che, dalla sideline, sembrava quasi uguale al vecchio Adam, amico e compagno di mille vittorie. La settimana prima meno patemi, una battaglia tirata per metà gara contro i Jets, poi la vittoria in scioltezza con un Brady, stavolta sì, praticamente perfetto. Troy Brown, Reche Caldwell, Jabar Gaffney non sono WR all'altezza di un Deion Branch o di un David Givens, e questo dà qualche problema in più a chi, come Brady e Belichick, si è ritrovato a improvvisare il gioco aereo quasi all'ultimo. I garzoni, ricevitori operai, fanno del loro meglio per non deludere e qualcosa di buono viene fuori. Le fortune di Brady girano però ancora su una linea offensiva solida, su un running game che, nonostante le difficoltà al Qualcomm Stadium, si è mosso bene intorno al giovane Laurence Maroney, al sempre solido Corey Dillon, e al caporal maggiore di tante battaglie Kevin Faulk.
Dietro la coppia B&B c'è infine anche una difesa niente male, che per un Rodney Harrison in frantumi si trova tra le secondarie un Asante Samuel ormai da mesi in stato di purissima grazia, mentre il front seven, anche se non sembra in grado di devastare la O-line avversaria, porta con sé, come al solito, l'esperienza e la grinta di Tedy Bruschi, di Mike Vrabel, di Rosvelt Colvin e, se la grazia sarà con loro, anche Richard Seymour sarà nella mischia a fare sfracelli.
Le due squadre partono vincenti nelle proprie rispettive division e si incontrano dopo aver affrontato i playoffs sin dalle wild cards; i Colts hanno sempre vinto in casa, i Patriots sono 8-1 in trasferta, San Diego compresa. Impossibile dire chi vincerà , in assoluto la sfida è tra i fantasmi passati di Indy e la volontà dei Pats di riscrivere la storia con inchiostro indelebile. Il tutto non passerà per quegli ex "no-names" di New England oggi protagonisti affermati nella lega, né tra l'entusiasmo difensivo di Indianapolis. La gara correrà sulla scacchiera tra Belichick e Dungy e sulla spina dorsale di Manning e Brady, reduci da gare difficili ma sempre in prima fila a giocarsi il primo ed il secondo posto di quarterback migliore in circolazione. Detta così sarebbe fatta per gli ospiti, ma il football non si gioca con la storia, si gioca col presente, una yard alla volta.
Una volta, ascoltando un brano di musica classica, un amico mi chiese di chi fosse la sinfonia in questione. Non seppi rispondere e lui, con aria da maestro, mi illuminò con un "quando non sai chi è ma ti sembra di averlo già sentito dì Bach. Con Bach, non sbagli mai". Così, non sapendo cosa dire, potrei dire Patriots ogni volta che arriva gennaio, "così non sbaglio mai". Se Vinatieri ci mette di nuovo lo zampino, però, lo farà con altri colori. Siete tutti avvisati.