Il piccolo Manning non cresce

Eli Manning al lancio; il più giovane QB di famiglia sta affrontando una terza stagione piena di difficoltà .

Forse molti di noi potranno dire che si erano sbagliati. Magari è presto, ma la sensazione che si sta facendo sempre più strada ogni settimana che passa è quella: Eli Manning non vale un quarto del fratello e, probabilmente, nemmeno del padre Archie. Ovvio, direte voi. Ma non è proprio così; quello che vediamo oggi non può essere il giocatore che stava germogliando un anno fa. Una delle più controverse trade post-Draft degli ultimi anni sta sorridendo a chi, inizialmente, sembrava dover soccombere ai capricci di un quarterback che di finire a San Diego proprio non ne voleva sapere. La storia la conoscerete tutti; draft 2004: San Diego al primo pick porta a casa Eli Manning, mentre i Giants al quarto (dopo Robert Gallery a Oakland e Larry Fitzgerald a Pittsburgh) chiamano un altro quarterback di talento, Philip Rivers, da North Carolina State. Manning chiarisce subito che la sua meta preferita sarebbe proprio la Grande Mela e i Giants si fanno avanti, imbastiscono la trade e se lo portano a casa.

Ambiente difficile New York City, roccaforte di grandissime storie sportive che solo attraverso gli Yankees nel baseball, recentemente, ha saputo riempire pagine di imprese sportive. Rivers finisce ai Chargers e per due anni rimane sulla sideline a osservare Drew Brees all'opera, Manning si fa coccolare da David Letterman, Manhattan e l'attesa del pubblico. Il paragone col fratello è lì in attesa, Eli lo sa perfettamente, e una metropoli come quella è pronta a divorarti in un secondo se non dimostrerai la cattiveria giusta e i numeri che tutti aspettano.

Manning subentra a metà  stagione a Kurt Warner, nonostante i Giants siano ancora in teorica corsa per la postseason. Il cambio non porta fortuna e New York, che veniva da tre sconfitte di fila, crolla inesorabilmente riuscendo soltanto nell'ultima giornata a vincere una gara, contro Dallas. La prima apparizione di Manning junior, in realtà , era già  avvenuta all'esordio contro gli Eagles, appena nove lanci tentati e un colpo tremendo di Jeremiah Trotter che valse un sack e un gran biglietto d'ingresso nella NFL.

Divenuto titolare Eli alza numeri che definire mediocri sarebbe un complimento, trova un'incredibile difficoltà , come rookie, nello stare in campo, ma dà  evidenti segni di classe. Nessuno lo condanna, né a NY né in altre parti del mondo, mentre a San Diego Brees si mette a fare il fenomeno e Rivers sembra condannato a un purgatorio abbastanza lungo. Manning dimostra di saper lanciare il pallone, di avere braccio, tocco, e un movimento sulle gambe che al fratello, notoriamente, manca in toto. Il collasso definitivo lo si ha però nella trasferta a Baltimora, quando la povera matricola chiude a 0 (zero) di rating nel 34-17 per i Ravens. In quella prima stagione, tra mille prevedibili difficoltà , si saggia il carattere di un ragazzino che non supererà  mai il 70 di rating, riuscirà  a vincere una sola gara, negli ultimi minuti, e lancerà  sei TD passes a fronte di 9 intercetti quando solo a Washington resterà  immacolato nella statistica delle palle perse su lancio.

Alcuni avvertono brutti segnali, altri, giustamente, hanno fiducia in un ragazzo che senza timore si è buttato nella mischia dei più grandi dimostrando una certa personalità  e una capacità  nel prendersi i propri rischi davvero buona. Il secondo anno, infatti, evidenzia un giocatore più sicuro, più capace nel gestire i propri mezzi e che trova, finalmente, i giusto supporto da dare a un attacco da favola. Oltre al playmaker Tiki Barber nel backfield, Eli può contare su uno dei migliori TE della lega (Jeremy Shockey) e, grazie all'arrivo da Pittsburgh di Plaxico Burress che farà  coppia con Amani Toomer, anche su due receiver esperti ed affidabili.

La stagione 2005 parte forte, Manning dimostra di poter sopravvivere nella frenetica NY e di poter gestire l'huddle sulla sponda Big Blue dell'Hudson River; il ragazzo mostra ancora segni di discontinuità , ma il suo talento sembra davvero grande. A questo punto sono in tanti ad esaltarsi, ed il momento più alto è il 23 ottobre, quando guida un drive semplicemente strepitoso che si chiude con l'orologio quasi a zero e un TD pass perfetto; Denver viene rimontata e battuta 24-23 sul filo di lana, il Giants Stadium è in delirio, l'erede di Phil Simms è arrivato. Nessuno si tira indietro, un drive del genere al secondo anno NFL non è cosa per tutti, una serie di passaggi che evidenziano intelligenza, capacità  di gioco aereo sensazionali, freddezza, precisione. Molti, sottoscritto incluso, sono disposti a credere che Eli possa superare Peyton. Non in capacità  tecniche, per carità , e nemmeno in controllo tattico del gioco o in leadership assoluta. Ma in efficienza, quello sì. Il più piccolo dei Manning può contare su maggior mobilità , su un'innata improvvisazione che lo rende meno "monotono" e, in un certo senso, prevedibile nei giochi del fratello; tutto ciò pur difettando in precisione rispetto al fratellone. Eli sembra in grado di gestire le situazioni altrettanto bene anche senza alzare gli stessi numeri di Peyton, non possiede la stessa intelligenza tattica, ma combina benissimo mobilità  e braccio. La sua stagione si conclude un po' in calo per via della pesantezza di sedici weeks da sopportare su spalle così giovani, ma le 3762 yards sono un ottimo traguardo, e i 17 intercetti fanno da contrappeso ai 24 TD e sono soltanto due in più rispetto ai 15 lanciati da Peyton al suo secondo anno.

L'esordio ai playoffs è un disastro, Eli cade sotto gli occhi del padre Archie in uno shutout interno subito dai Carolina Panthers, in una partita dove Julius Pepper e soci riescono a pressare con costanza l'inesperto QB mentre i suoi receivers non riescono a dare il giusto apporto al gioco offensivo. Un esordio che brucia, ma una stagione che crea un buon lasciapassare per il futuro. La terza stagione corre ora e, al contrario di quanto previsto, le cose non stanno andando poi così bene. Eli ha avuto quest'anno la chance di scontrarsi per la prima volta con il fratello, uscendo sconfitto ma a testa alta da una gara in bilico fino alla fine nella giornata di apertura. Un rating di 88.7 nelle 247 yards lanciate con due TD passes e un intercetto (come per il fratello), una gara che sembrava palesare un ennesimo balzo in avanti in quanto a maturità .

Invece Eli è via via calato, anticipando il collasso di un anno fa di qualche settimana e trovandosi sempre più in difficoltà . Philip Rivers, intanto, ha esordito nella sua prima stagione da starter ed ora i paragoni sono inevitabili. Sui numeri, anzitutto, la cosa che in certe situazioni conta più di tutte. A San Diego se la ridono di gusto, con la loro squadra prima in division ed il loro QB che ha lanciato 95 yards in più, e nove intercetti in meno del suo diretto concorrente. Manning non può nemmeno accusare il potenziale a disposizione, visto che prima dell'infortunio di Toomer la squadra era la stessa dello scorso anno, ossia un attacco da favola. Certo, c'è uno Shockey che si trascina la gamba da settembre, ma il problema sembrano le sicurezze del giocatore più che gli acciacchi di altri; e il coaching staff, ovviamente.

Il primo colpevole, per tutti, è sicuramente coach Tom Coughlin, reo di non salvaguardare il ragazzo dal lato psicologico, di puntare ad un game plan prevedibile per gli avversari e instabile per i propri giocatori, di rischiare sempre una forzatura sulla pelle di Manning quando è il momento di giocarsi la partita inch su inch. I Giants, ormai è noto, attaccano sistematicamente il profondo subito dopo aver recuperato un pallone e immediatamente dopo aver subito una rimonta imprevista. Manning è partito forte, ha sbagliato la gara contro Seattle, quella in cui Shockey, per primo, accusò il coaching staff, per poi non riprendersi più in pieno, balbettando nelle vittorie contro Atlanta e Dallas e crollando, definitivamente, dal secondo tempo contro Chicago a oggi.

Tre sconfitte consecutive e una serie di infortuni importanti compromettono la situazione dei G-Men, ma Tom Coughlin non se ne cura e a Manning chiede sempre di metterci il braccio e, in particolare, la faccia. La situazione non paga, i numeri sono indegni, e la stagione sta tornando sui livelli di quella da rookie. Manning perde il confronto con Rivers, passa per quello "adottato" in famiglia e subisce persino nei numeri contro QB in squadre in difficoltà  (Ben Roethlisberger, Brad Johnson, Brett Favre) o in chi di inesperienza e discontinuità  sta facendo un marchio di fabbrica (Rex Grossman).

Ritrattiamo tutto, vostro onore, ma questo Manning non sembra in difficoltà  solo per colpa degli infortuni in squadra che rendono difficile il controllo della partita; questo Manning sembra palesemente sottotono, già  schiacciato dalla stagione nonostante il terzo anno di esperienza, lontano da quel carattere evidenziato prima d'oggi. A NY si continua a sperare, e chi come me aveva visto in lui il bagliore di un buon giocatore, non può che inginocchiarsi insieme ai tifosi più sfegatati e sperare con loro. Ovvio che non può essere andato tutto perso, ovvio che Manning qualcosa di buono riesca ad evidenziarlo ancora, ed è altrettanto ovvio che molti siano con Shockey nell'accusare un head coach incapace di capire la situazione e tutelare il proprio gioiello. Le sconfitte con Chicago e Tennessee vengono da un recupero degli avversari dovuto all'incapacità  di gestire la partita e di obbligare il quarterback a giocarsela da solo; odiosa la chiamata dalla sideline domenica scorsa quando ,subito un recupero di 21 punti dai Titans, non si è deciso di dare maggior spessore alle corse dell'immenso Barber ma si sia andati a lanciare sul profondo, mandando prima un SMS agli avversari. Solita scelta, solita chiamata, solito errore. E Manning, ancora incapace di dettar legge come il fratello, accetta, prende la sfida per dimostrare qualcosa a sé stesso e agli altri e crolla.

Non è dell'umore giusto, Manning, non è nella situazione di poter giocare in questo modo. Su di lui si spendono sempre più spesso pessime parole, ma il cognome e la scelta al draft ne lasciano intatta la speranza, più o meno di tutti. Manning ha i numeri, lo si vide al primo snap e lo si continua a vedere oggi, ma qualcosa a NY deve cambiare. O l'idea tattica o l'allenatore, ma qualcosa che riesca a gestire meglio questa risorsa de arrivare ad ogni costo; Manning ci mette del suo, nello strafare e nello sbagliare, ma questa difficoltà  a reggere una stagione, trovare continuità , dopo tre anni e col futuro che ci si era immaginati, lasciano perplessi. Coughlin o no da lui ci si aspetta di più, che poi a pagare, come sembra, sia il coach poco importa. Il piccolo Manning deve diventare grande, è questione di… famiglia.

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