Chi dei due running backs si fregerà del titolo di campione del mondo?
Così diversi, cosi uguali. Jerome Bettis e Shaun Alexander
Nella giungla mediatica di questi giorni che precedono il Super Bowl XL la storia di copertina, abusata, ripetuta fino quasi a renderla priva di interesse, è quella di Jerome Bettis, il running back dei Pittsburgh Steelers giunto all'ultimo atto della carriera nella sua natia Detroit.
Ma come in quei quadri dove, nonostante l'autore abbia voluto focalizzare l'attenzione sul personaggio in primo piano, uno sfondo c'è sempre ed è importante ai fini della fruizione del messaggio che quell'autore ha voluto dare, così sullo sfondo di questa copertina si staglia la figura, imponente piuttosto anziché no, di Shaun Alexander.
Non che il running back dei Seahawks ne abbia fatto una questione di vita o di morte. Il suo carattere, riflessivo, pacato, da uomo di famiglia e religioso come Shaun è, lo ha sempre portato ad accettare le difficoltà della vita senza sentire quella necessità di dover dimostrare qualcosa a tutti i costi.
“That's just how i live my life - chasing after Christ – finding new ways to get closer to Him. I want to do what children of God do, and that's go all out for Christ"
.
Questo è Shaun Alexander, l'MVP della stagione, quello i cui piedi hanno calpestato i terreni, artificiali e non, di tutta l'America meglio di chiunque altro nella stagione 2005. Ma anche quello che ha creato una fondazione che porta il suo nome per assistere ragazzi rimasti orfani del padre e che necessitano di assistenza, anche economica.
Ma la percezione che le persone hanno di Alexander è quella di una persona egoista, interessata al denaro, avvezzo ai contatti, etichettato come soft, grande accusatore di Holmgren nel 2004 per non aver chiamato quell'ultimo gioco di corsa che gli avrebbe fatto diventare il running back con più yards in stagione.
Così quando l'anno scorso quando il nuovo presidente di Seattle, Tim Ruskell, gli propose di prendersi il 2005, inteso come la stagione sportiva, come periodo moratorio per conoscersi entrambi meglio, offrendogli solo il franchise tag, anziché andare subito per la giugulare e mettere nero sul bianco contratto che ti porta a spendere un po' di quei soldi che hai messo sotto il materasso, Alexander, dopo un'iniziale e comprensibile rammarico, non ha fatto una piega.
Ed ha iniziato la stagione 2005 ponendo l'asticella delle aspettative sempre più su, come era solito fare il mitico saltatore cubano Sotomayor, arrivando a conquistare traguardi personali (record NFL per TDs in una stagione) e di squadra (primo Super Bowl nella storia della franchigia di Seattle) fino ad oggi solo sognati e che lo hanno portato a diventare l'MVP della lega.
Sogno diventato realtà per entrambi i protagonisti di questa nostra storia.
Rewind velocissimo di un anno, 2004 AFC Championship Game. Sulla sideline degli Steelers un lacrimante Ben Roethlisberger lancia una promessa. Una di quelle che si fanno nei momenti negativi più per trovare la luce in fondo al tunnel che per reale convinzione di poterla mantenere. Un giorno.
Quel giorno però è arrivato. E' domenica prossima, 5 febbraio 2006 e il quarterback di Pittsburgh non ha perso occasione per ricordarlo a chiunque glielo chiedesse. L'aver promesso a Jerome Bettis di portarlo al Super Bowl se solo il ragazzo di Detroit avesse deciso di rimandare di 365 giorni il party che avrebbe organizzato in occasione del suo ritiro.
Un sogno, una storia di cui hanno parlato in tanti, The Sporting News, Sports Illustrated, Time, la ESPN, e che ha le sue origini 13.662 yards fa in quella casa di Detroit, adesso ridotta malissimo dopo anche un incendio, che Jerome aveva pensato bene di cambiare appena firmato il primo contratto da professionista.
Voleva portare Glayds e John Sr. fuori dalla città , nei sobborghi di Detroit ma i Bettis sono D E T R O I T E R S fino al midollo e sono rimasti nella città messa sulla mappa da Henry Ford e Jerome ne è uno dei figli che meglio rappresenta questa città degli Stati Uniti.
Testardo, duro, lavoratore, incapace di arrendersi, come quella volta che si presentò all'allenatore di football della Mackenzie High School dicendo " Coach, mi chiamo Jerome Bettis. Posso giocare a football per lei?".
Uomo di linea difensivo, fullback, linebacker, la carriera dell'uomo che tutti chiamano "The Bus", ma che a casa mamma chiama ancora Roney, non è certo iniziata come qualcuno potrebbe aspettarsi, tutta paillette e lustrini.
E proprio nella consapevolezza delle difficoltà che i ragazzi possono incontrare, oggi, nel crescere Bettis ha creato "The Bus Stops Here Foundation" nel 1997. Fondazione che ha il compito di assistere giovani di Detroit e Pittsburgh che, al contrario di Bettis, non hanno la fortuna di crescere in un ambiente familiare sano, protetto pagando le rette scolastiche, inserendoli in programmi che insegnano a leggere e scrivere e a prendere domestichezza con il computer.
Confidenza che, sul campo invece, Bettis ha dimostrato di possedere e che lo porta anche ad avere uno stile di corsa tutto suo totalmente diverso da quello del running back dall'altro lato del campo.
Alexander e The Bus sono diversi. Poche storie. Uno va dritto e forte, l'altro, se può, cerca più la riga laterale di fuori campo che il marker delle yards in mezzo campo. Uno ama i difensive tackles, ne è la loro nemesi, per la capacità , innata, di portarseli dietro, di continuare a muovere quei piedi da ballerina, eredità della madre.
L'altro ha una velocità di base maggiore, è meno fisico, ma è più elusivo, può trasformare un guadagno da poche yards in big play praticamente in ogni momento e da quest'anno si è avvicinato a Bettis nella capacità di "chiudere" il down nelle situazioni di piccolo yardaggio. Caratteristica che è nel DNA del running back degli Steelers.
Uno ama correre in mezzo ai numeri, l'altro invece i numeri li fa in campo ma al di fuori ci va per necessità della propria squadra, pura espressione della West Coast Offense. Se ne esiste ancora una. Che Mike Holmgren ha ereditato da Bill Walsh e che riproposto con il set di tre ricevitori dal quale sono uscite esattamente la metà di Alexander di quest'anno.
Bettis invece è sempre stato il running game degli Steelers fino a quando un eccentrico signore di nome Mike e di cognome Murlakey, appena nominato offensive coordinator dei Dolphins, si era convinto che Tommy Maddox fosse la reincarnazione di Terry Bradshaw e aveva rivoltato 70 anni di storia.
Il Super Bowl probabilmente è più nelle mani dei quarterbacks che nei piedi dei due running backs ma, comunque vada a finire, a partita conclusa, Jerome Bettis e Shaun Alexander potranno alzare gli occhi al cielo e gridare campioni.