Peyton Manning arrivò in NFL come predestinato, ma il suo percorso è sempre più simile a quello del grande Marino: tante imprese e nessun anello al dito.
Tutti sanno quanto sia difficile fare pronostici nel football, la quasi impossibilità di scommettere sulle quattro squadre che a inizio anno andranno a giocarsi l'accesso al Super Bowl nei rispettivi Championship con l'assoluta certezza di fare centro.
Questa stagione però era cominciata sotto una nuova stella, la regular season aveva dato chiari indizi e tutti, o quasi, si sarebbero giocati una fortuna sugli Indianpolis Colts al Grande Ballo o addirittura già campioni del mondo: rimaneva solo quella insignificante formalità che sta nello scendere in campo e battere gli avversari.
Una stagione "costruita" per loro, con la finalissima da giocarsi in un dome per far sentire a casa i ragazzi di Tony Dungy e con una corazzata pronta a strappare il fattore campo in regular season e via, dritti a Detroit per l'anello.
Tutto era cominciato per il meglio, una squadra preparata alla perfezione, più equilibrata grazie ad una difesa concreta, veloce e ben messa in campo senza star troppo a puntare su tatticismi o valori tecnici di punta.
Una perfect season inseguita e corteggiata per mesi poi, sul record di 13-0, la sconfitta contro San Diego e la ritrovata serenità di non sentirsi predestinati, quasi obbligati a non perdere mai. La libertà di sentirsi umani insomma.
E ancora, il dramma di Tony Dungy e la speranza di trovare nel gioco il modo di lenire dolori che non si possono cancellare, con un finale da libro rosa pronto per Hollywood e rotocalchi (poco) sportivi.
Il riposo dei campioni, senza l'obbligo di inseguire un "cappotto" da rifilare all'intera NFL e tutti pronti con gli occhi puntati a gennaio, verso la meta più importante: fattore campo guadagnato, squadra fortissima e collaudata e lui, Peyton Manning, simbolo della lega e dei Colts, per molti il più grande quarterback in circolazione, sicuramente tra i più tecnici e più preparati a livello tattico.
Per tutti l'incubo di Manning fino ad oggi era riconducibile al Foxboro Stadium, la casa dei New England Patriots; il gelo e le bufere di neve di Boston che non permettevano al quarterback di guidare al meglio i propri compagni sotto un clima assolutamente ostico per chi è abituato ad un dome, un fattore meteo che garantiva buon gioco alla forte difesa dei Patriots mentre l'attacco di Brady faceva il resto distruggendo per due anni consecutivi ogni velleità di Indy.
L'incubo sembrava finito grazie alla conquista del RCA Dome per tutte le patite di postseason, ma così non è stato. L'incubo di Manning è tornato a galla in modo ancora più beffardo, imprevisto ed improvviso, nel giorno in cui s'inaugurava la tanto attesa cavalcata verso il titolo.
I media scartavano l'ipotesi di un'eliminazione dei Colts prima del Super Bowl XL, lasciavano chiacchiere e pronostici giusto per le altre tre sfide sprecando inchiostro e parole per match sulla carta più aperti alle sorprese. In terra di Indiana nessuno sconto, Colts avanti e sotto a chi tocca.
Domenica invece, proprio davanti ai tifosi di Manning, i Pittsburgh Steelers di Ben Roethlisberger e Troy Polamalu hanno dichiarato finita la corsa dei Colts senza alcuna possibilità di replica. I fattori della vittoria della squadra guidata da Bill Cowher sono tanti, certamente da non sottovalutare proprio questo snobismo che gli analisti avevano riservato alla partita dal risultato (secondo loro) già scritto.
Il resto è stata tanta determinazione degli ospiti, una tattica perfetta, una difesa arcigna e un quarterback motivato e pronto a dimostrare il proprio valore spesso messo in discussione con il più ingiustificato e variegato catalogo di motivazioni. Big Ben è bravo, intelligente e pronto a staccare il biglietto per Denver lasciandosi alle spalle un desolato Manning.
Per gli sconfitti rimane l'incredulità e cominciano gli inevitabili processi. Non si può dimenticare il field goal di Vanderjagt che avrebbe impattato il risultato sul finire dei secondi di gioco ed è invece finito apertissimo a lato dei pali, ma l'uomo nel mirino inevitabilmente è lui, il leader (finora) indiscusso: Peyton Manning.
L'aggettivo che gli si vuole attaccare addosso con maggior gusto in questo periodo è, inutile sottolinearlo, quello di "perdente"; già , perché se anche nel football si vince o si perde in undici, anche se il kicker calcia fuori il pallone decisivo ed anche se l'avversario ha fatto meglio di te senza che tu possa averne troppe responsabilità , il prezioso cuoio da recapitare ai receiver per spedirli direttamente in endzone lo lancia lui.
Le chiamate sono spesso le sue, l'huddle è di suo dominio, ne è capitano e responsabile. Inutile cercare di ragionare su quello che dovrebbe essere lo sport, su quello che dovrebbe essere in particolare il gioco di squadra; l'uomo copertina, l'icona di un intero stato, il giocatore più pagato della lega deve vincere le partite. Anche quelle impossibili.
Questa formula si applica alla perfezione a chi, come Manning, ha un gioco basato sul perfezionismo, una tecnica incredibile, una capacità di lettura delle difese fuori dal normale. E' ovvio quindi che sia in queste situazioni che gli attributi debbano uscire completamente allo scoperto per dimostrare al mondo quanto la leadership di un quarterback possa essere fondamentale per guidare l'intera armata delle "scarpette nere" fino alla vittoria finale e direttamente nei libri di storia.
La teoria del "perdente-vincente" è cosa che lascio ad altre discussioni, un ragionamento che da sempre m'infastidisce e che non può trovare riscontro matematico nell'albo d'oro degli atleti; al massimo può far comodo ai puristi della lingua italiana che, alla lettera, cercano di portare dalle proprie parti le ragioni di un discorso completamente opinabile.
Il vincente dovrebbe essere colui che fa la giocata giusta nel momento giusto, l'atleta che inventa il colpo ad effetto in grado di rovesciare l'esito di una gara ormai compromessa. Il vincente è bravo, astuto, fortunato e coraggioso.
Il vincente riempie la bacheca di trofei, ma se ti chiami Dan Marino passerai il resto della vita a chiederti come sia possibile essere dei perdenti di successo visto il braccio e le capacità tecniche di cui madre natura aveva deciso di fornirti.
Cosa sia mancato a Dan Marino non vogliamo ripeterlo in questa sede, certamente si può però affermare che Manning, al contrario di Dan the Man, abbia avuto a disposizione in questi anni un arsenale superiore a quello del suo predecessore. Dove risiede quindi l'incredibile bug che affligge il leader degli Indianapolis Colts?
Manning è fondamentalmente un giocatore incompleto, vittima del proprio perfezionismo che lo rende vulnerabile ai giochi avversari che ne mettano in discussione le certezze che di solito accumula durante regular season fatte di record (individuali e non) e di cavalcate trionfali.
Manning manca di fantasia nel più classico stile dell'artista educato da un guru, e tipicamente non di strada, che caratterizza l'anglosassone di successo che vediamo in filmini di dubbio gusto cinematografico: pignolo, calcolatore, schematico.
Punta alla perfezione Peyton, ritenendo perfetto solo ciò che nella propria ottica lo è realmente. Totalmente incapace fino ad oggi di prendere in considerazione l'ipotesi di giocare a tratti un football più rapido, meno snervante, meglio assimilabile dai compagni e più imprevedibile per le difese quantomeno in situazioni di emergenza.
Assolutamente lontano dall'idea di giocare un game plan più vicino a varianti che ne rendano difficile la "decodifica" da parte delle difese più forti, nemmeno mai sfiorato dall'idea di poter essere colpito con frequenza dai difensori avversari e di poter sempre gestire la situazione con comodità all'interno dei tackle.
Il piedistallo che negli anni gli è stato costruito sotto i piedi si sta infine sgretolando, soprattutto ora che la sua indiscutibile leadership è più che mai traballante per via dell'ennesima beffa. Una leadership che si accompagna a quel tono da generale che spesso ha imposto il silenzio di coach obbligati a soddisfare i capricci pomposi di chi sul campo vuole essere Re (con la maiuscola) ad ogni costo per non trovarsi aggrediti a loro volta da stampa e tifosi.
La stessa leadership che costa cecità reiterata e che mette a nudo un carattere ancora inadatto alle partite che contano. La sua voglia di vincere da solo, di sentire il nemico crollare sotto i propri colpi, grazie alla propria inarrestabile tattica, pecca di un'incredibile presunzione che lo blocca nel momento topico, quasi sembra impaurirlo e non gli permette di concedere un gioco diverso, magari di corsa, nel momento più caldo della gara.
Le misere 13 portate di James domenica scorsa fanno gridare allo scandalo ed è difficile pensare che Dungy abbia chiesto di seguire solo questa via mentre le cose si mettevano male e la pressione di James Farrior su Manning diveniva sempre più costante.
E così, se i miseri 3 punti di un anno fa erano solo colpa della neve di Boston, quest'anno non si trovano davvero più scuse e si perdono contemporaneamente una miriade di certezze che avevamo fatto nostre, chi più e chi meno ovviamente.
Il re (con la minuscola) è decisamente nudo di fronte alla più grande beffa in carriera.
Il tempo per rifarsi c'è, ma i Colts vanno incontro ad una offseason fatta di problemi salariali e di giocatori pronti a trasferirsi come free agent. Il sogno sembra finito, il treno passato. C'è il calcio di Vanderjagt, certo, e c'è persino l'incapacità di Dungy di riuscire come un grande stratega nei playoff e, forse, di essere in grado d'imporsi meglio al proprio capitano.
Ma anche Manning dovrà adeguarsi, scendere sul pianeta Terra e dichiararsi umano per cercare di vincere. Nessuno pretenderà mai da lui che si metta a correre, tantomeno di giocare senza tutti quegli audibles chiamati sulla linea di scrimmage, chiamate che a volte servono per coprirsi, a volte per cambiare gioco, altre volte sembrano invece solo un marchio di fabbrica messo in vetrina per dimostrare la qualità di un prodotto "a prescindere".
Manning dovrà garantire quella continuità che spesso trova in stagione regolare, quella serie di giochi grazie ai quali riesce a risultare davvero un "vincente" prima di sciogliersi ai playoff dove la sua leadership smette di essere così sicura, dove il suo coraggio e la sua intelligenza tattica cominciano a latitare.
Manning deve obbligatoriamente completarsi, diventare un tutt'uno con la propria squadra e non continuare ad essere colui che grazie alle splendide giocate trova modo di servire sempre e comunque il pallone giusto.
Nei playoff queste convinzioni non esistono, tutto ciò che in regular season sono pregi in offseason non contano più, non risultano come scontati risultati aritmetici. Una giornata storta anche solo per metà e la festa finisce subito.
Da buon condottiero dovrebbe diventare capace di gestire situazioni frettolose con una no-huddle offense che sfruttando il grande Edgerring James potrebbe portare a drive rapidi e chirurgici sfruttando una run and shot su distanze medio-corte fino al colpo che, dopo aver aperto la difesa, lascia senza chance gli avversari.
Dovrà scendere sul campo di battaglia come sempre, cercando da buon generale di muovere ogni pezzo di artiglieria prima di mettersi davanti a tutti come un cuor di leone destinato al duello in stile "solo contro tutti". Le sue dichiarazioni sulla O-line dopo il match lasciano intendere che la giornata storta sia passata da lì e no, come penso io, da una gestione frettolosa e poco ragionata del sistema ideale.
Gli errori individuali si pagano sempre e se il calcio di Vanderjagt fosse entrato parleremmo di un'altra partita e di un altro Manning. Ma la storia si scrive sul campo di gioco e anche se fra un anno saremo disposti a cambiare idea ciò che oggi è chiaro più o meno a tutti è che Manning, oltre ad essere schiavo del proprio ego, è assolutamente un'altra persona nel mese di gennaio. Questo dipende dal carattere ed è una parte del gioco sulla quale non si può lavorare ma che dipende da una maturità che per l'ex di Tennessee davamo ormai per scontata.
Non era così, e lo ha capito Farrior che ha sfondato più volte la porta di casa Colts per farsi sentire bene da vicino, e lo ha capito Polamalu, emblematico nel suo presentarsi nei pressi della linea di scrimmage in modo minaccioso, per spaventare un capitano coraggioso che, senza poter contare sulle chiamate di linea, rimaneva di sasso e incapace di capire le intenzioni del back avversario.
"Blitz? Finta di blitz? Mi arriva addosso o mi vuole mettere pressione psicologica sulle spalle?" Manning dovrà crescere per quanto possibile nella gestione dei nervi durante i playoff e completarsi su un game plan che dia spazio al coaching staff, ai suggerimenti, agli imprevisti. Un game plan che serva a Manning per far crescere la squadra in ogni frangente e non per appuntarsi medaglie di latta sul petto.
Nel finale di partita, durante un disperato inseguimento, abbiamo visto il solito Manning pescare i lanci giusti e riaprire la gara mentre Pittsburgh cercava di contenere il gioco e non farsi riprendere.
Questo è un Manning spettacolare ma per molti lontano dall'essere in grado di gestire così tutta una serie di playoff, dove la differenza nasce da diversi fattori e non solo da un numero uno che tenta di vincere da solo, quasi che accostare il proprio nome al Vince Lombardi Trophy fosse per lui un atto dovuto e che debba avvenire nel modo migliore per gli highlights che andrebbero a ricalcarne le gesta.
Ma per vincere da solo usando con forza il braccio ci sono il tennis e l'erba di Wimbledon. Anche quella è storia, ma la gara te la gestisci solo contro l'altro, non c'è un capellone col numero 43 sulla maglia che scavalca la rete e ti rovina la festa.
La storia può essere ancora scritta anche se ora sembra davvero molto lontana e un giorno, forse, Manning potrà spiegare a Marino come si battono i suoi record, come si vincono tante partite importanti ma come sul più bello tutto crolli, rimanendo tra i volti che popolano la Hall of Fame il più grande perdente di successo di ogni epoca della palla lunga un piede.
Il sogno dei Colts non è finito, ma il tunnel dal quale uscire sembra essersi tremendamente allungato.