La sconfitta di Indiana è in particolare la sconfitta di Peyton Manning…
Sessanta minuti effettivi. Tre ore calcolando i timeout spesi, il riposo tra i due tempi e le interruzioni dovute a quella divinità invadente che prende il nome di pubblicità .
Tanto è bastato a mettere fine alla stagione dei Colts ma, ancora di più, a dover recintare improvvisamente il grattacielo di certezze costruito su Peyton Manning, Tony Dungy e l'intera franchigia di Indianapolis. Un'opera architettonica che per bellezza fa(ceva) a gara con l'Empire State Building improvvisamente è entrata a forte rischio di crollo. Crollo strutturale.
Perché si può dire che i Pittsburgh Steelers abbiano pescato una delle rare giornate storte dei Colts. Si può chiamare in causa, per perdere tempo, la settimana di riposo a cui sono 'condannate' le squadre che finiscono la regular season guadagnandosi il bye.
Si può tirare in ballo la sfortuna, quella di un cecchino come Mike Vanderjagt che improvvisamente si trasforma in un pensionato qualsiasi alle prese con un kicking contest di periferia. E di fronte ad un 21-18 con un finale pazzesco, ma bugiardo per la lezione di football impartita da Pittsburgh ai palati raffinati del RCA Dome, non si direbbe il falso sostenendo che gli Steelers del 15 gennaio 2006 hanno giocato la loro partita migliore, sotto ogni punto di vista.
Per dirne una: nel Dome dei decibel da aeroporto internazionale neanche una falsa partenza della linea d'attacco. Il neo, anche in chiave Championship, c'è, ed è un running game che non va come dovrebbe. Ma lamentarsi, dopo una prestazione monumentale come quella valsa il biglietto per Denver, sarebbe un esercizio di pura pignoleria.
Insomma, di osservazioni, di "se", se ne possono tirare in ballo a decine. Di certezze, soprattutto nei playoff della National Football League, lo sport ne dà davvero poche. Una, però, riguarda Indianapolis. I Colts, quest'anno, avevano la squadra migliore, la più completa, quella più ricca di talento e - soprattutto - quella che alla sfortuna aveva già pagato un dazio enorme. Ma da questa certezza nascono i dubbi. Due più due non fa mai quattro, e con estrema regolarità : quando finisce la regular season.
Nell'immaginario collettivo Manning è il miglior quarterback, Harrison è il miglior ricevitore e con Reggie Wayne, Brandon Stokley e la coppia Dallas Clark-Bryan Fletcher forma la batteria di ricevitori più letale del pianeta. E Vanderjagt? Con Adam Vinatieri e Neil Rackers è il migliore della NFL in fatto di piede.
Al cocktail si aggiunge anche Tony Dungy, riuscito a costruire una splendida difesa partendo da una semplice ma efficacissima cover 2 di base. Senza fronzoli, solo velocità e disciplina. Anche per chi nella scala Richter del talento, vedi Dwight Freeney o Bob Sanders, si posiziona talmente in alto da poter prendere a spallate la muraglia cinese fino a buttarla giù.
Il problema, la ragione del disastro, dov'è? Nella punta di diamante. Sì in Manning. La disfatta subita per mano degli Steelers ha dimostrato che essere un grandissimo passatore, rappresentare il non plus ultra della tecnica, non equivale necessariamente ad il massimo che il ruolo di quarterback può offrire. Perché la dote principale richiesta ad un giocatore, quella che i playoff della NFL per loro natura esigono, è la testa.
E Ben Roethlisberger, per questo, è superiore a Manning. I record dei due nella postseason dicono 3-1 per il sophomore Big Ben e 3-6 per il due volte MVP della lega. Il divisional stravinto da Pittsburgh ha detto, e a chiarissime lettere, che le stimmate della grandezza si vedono anche se in fatto di tecnica si rientra a fatica nella top ten della NFL, se qui e lì si mostrano dei difetti nel trattamento della palla, se si è costretti a giocare con un dito rotto e un guanto anche alle temperature tropicali di un dome e, infine, se un inizio fulminante viene rallentato da un intercetto sfortunato, dovuto ad un errore tecnico del proprio miglior offensive tackle (Marvel Smith).
E a questo, il numero 7 degli Steelers, aggiunge la completezza che Manning non ha. Mobilità , capacità di improvvisare, di giocare anche quando la tasca ti crolla addosso. E, soprattutto, la capacità di sentirsi importante ma, allo stesso momento, di saper stare al proprio posto, di giocare per la squadra e di non essere vittima del proprio talento.
Manning, in questa trappola, ci è cascato da tempo e l'ennesimo sogno sfumato lo conferma. Le responsabilità vanno sicuramente divise con il coaching staff e la franchigia, ma tra il caricarsi una squadra sulle spalle e portarla al massacro per la voglia di aiutarla ce ne passa.
Lo special team respinto fuori dal campo non solo non è una novità , ma è anche una grave mancanza di rispetto per chi è pagato per prendere certe decisioni, per chi a certe scelte arriva seguendo dei ragionamenti dettati non dall'adrenalina del campo ma dalla somma di almeno 2 cervelli pensanti e dello studio di una partita e di quintali di statistiche.
E a Manning, quel punt incombente, era sembrato una sconfitta. Un inizio disastroso, 0 su 4 con i ricevitori inghiottiti dalle sbalorditive secondarie degli Steelers (mai così bene dai tempi di Rod Woodson), e un mucchio di palloni sparati nel deserto per la pressione costante della difesa di Pittsburgh, guidata da un Casey Hampton in gran vena al centro della linea e da un Troy Polamalu semplicemente allucinante.
Su ogni pallone, su ogni snap difensivo, su ogni pallone. Onnipresente, atleticamente devastante ma scippato di un intercetto decisivo a 5 minuti per un abbaglio arbitrale in sede di moviola. Dall'altra parte, mentre Manning faticava a rimettere in piedi l'attacco più scintillante della NFL, gli Steelers portavano a compimento la prima parte del progetto, ovvero prendere un paio di possessi di vantaggio con un gameplan rivoluzionato: primo snap e passaggio incompleto per un drop di Antwaan Randle El, poi play-action e lob perfetto da 36 yds per Heath Miller. Parker rumina un paio di metri, ancora il rookie uscito da Virginia guadagna 18 yds su un'altra palla perfetta, Parker sbatte sul muro della run-D di Indy e poi 3 lanci consecutivi per entrare nella red zone: Ward, Randle El e “Fast” Willie. I primi 7 punti arrivano grazie ad altrettante yds di Jerome Bettis e ad una slant perfetta di Randle El.
Sono passati 5 minuti e mezzo, l'attacco dei Colts entra, guadagna 2 yds con Edgerrin James e va a vuoto 2 volte sulla direttrice Manning-Harrison. Three & out ma poco male, perché Roethlisberger, dopo aver centrato anche Tuman per 19 yds, viene colpito da Freeney e spedisce un pallone in braccio a Cato June. Torna Manning, che manca prima Wayne e poi ancora Harrison, mentre The Edge prende appena 3 yds su corsa. Three & out, ma stavolta fa male. In meno di 3 minuti, partendo dalla linea delle proprie 28, gli Steelers con 4 corse e 2 lanci (catch and run strepitoso di Hines Ward da 45 yds e td pass sulla solita hook di Miller con Big Ben a sparare in movimento) vanno ancora a segno per il 14-0.
Bill Cowher ha per le mani il tipo di partita che può permettere alla sua squadra di giocare il football che agli Steelers riesce per natura. Controllo del tempo e difesa. Chris Gardocki poi inventa un punt bello e fortunato che costringe Indy a ripartire a 180 centimetri dalla propria linea di meta. Qui i Colts si svegliano, correndo con James dalla parte di Joey Porter e Larry Foote e trovando un Manning vicino a quello conosciuto. Un drive convincente, 14 snap in oltre 9 minuti, che si arena, però, su una goal line stand di Pittsburgh: James sbatte su Clark Haggans e sul solito Polamalu, Vanderjagt entra e mette tra i pali 3 punti calciando dalle 2.
Piovono fischi, ma la scelta è quella giusta. Bisogna togliere lo zero dal maxischermo e dalla testa di 53 giocatori che fino ad un mese fa lottavano per la Perfect Season e ora, dopo una ventina di minuti di postseason, guardano in faccia la catastrofe. La partita, di fatto, si decide nel terzo quarto. Pittsburgh inizia a tirare il freno e giustamente gioca sul cronometro e la posizione di campo. Così, mentre la difesa continua a cancellare Harrison & co. dalla mappa della partita, Randle El riceve un punt a metà campo e lo riporta sulle 30.
E' lo snodo fondamentale e Cowher, che firmerebbe col sangue anche solamente un field goal, eclissa per 3 minuti Roethlisberger, senza rischiare nulla con il gioco aereo: Parker gira la chiave dell'avviamento con un primo down fulmineo (11 yds), quindi l'attacco black'n'gold sale sul Bus che in 5 fermate (7+1+9+1+1) porta la partita al capolinea.
Poi è storia, per molti già Storia, con la S maiuscola, della NFL. Manning trova un td pass da 50 yds per Clark all'inizio del quarto periodo (bellissima sgroppata del tight end tra le secondarie allentate degli Steelers), mentre Pittsburgh risponde portando, con un solo drive, il cronometro da 14:03 a 6:03 e la palla dalle proprie 26 alle 20 dei padroni di casa con un punt in touchback di Gardocki. Qui, dopo un passaggio da 24 yds per Wayne, Manning si fa intercettare da Polamalu ma il challenge di Dungy – dovuto e necessario nonostante l'inequivocabilità delle immagini – annulla il cambio di possesso. E' un incompleto, ma il perché resta un mistero.
I Colts, insomma, ricevono il primo bacio dalla Dea Bendata, Manning ringrazia e con 3 completi consecutivi porta James sulle 3 yds: The Edge entra di prepotenza, Wayne fa suo con un esempio raro di classe e tecnica il pallone della conversione da 2 punti. Lo score dice 21-18, Pittsburgh toglie altri 2 minuti dal cronometro e con 2:31 da giocare spara via il pallone e si mette nelle mani della difesa. La Blitzburgh non tradisce: completo a James per perdita di 2 yds, sack di Kimo Von Oelhoffen per perdita di 8, incompleto su passaggio destinato a Stokley e Manning ancora a terra sulle 2 yds di Indy sul quarto down decisivo.
Partita finita? La logica direbbe di sì, ma l'illogico prende il sopravvento. I Colts hanno 3 timeout, Cowher decide di andare per la meta della sicurezza: decisione discutibile ma tutt'altro che scorretta. La palla, ovviamente, va in braccio a Bettis, che sbatte su un grandissimo tackle di Brackett e in un attimo è il pandemonio. Harper, che in 2 giorni ha preso una coltellata dalla moglie su un ginocchio ed una botta da un compagno sull'altra rotula, prende il volo ma a fermarlo, spuntando dal nulla a distanza siderale dall'inizio dell'azione, spunta Big Ben. “The Tackle”, lo chiamano già a Pittsburgh. Roba da far sentire il fiato sul collo a Franco Harris e alla sua leggendaria Immaculate Reception.
Secondo bacio della fortuna, si parte dalle 42 dei Colts con l'intero pianeta a polarità invertita. Manning a Wayne, 22 yds. Manning a Harrison, altre 8. Secondo down e 2 sulle 28 di Pittsburgh, incompleto con miracolo del rookie Bryant McFadden su Wayne in area di meta. Terzo down. Indy non corre, passa ancora. Ed è un errore gravissimo che sta tutto, con tutto il suo peso, sulle spalle di Manning.
Chiamata dalla sideline o meno non importa, la delegittimazione di Dungy era già cosa fatta dalla cacciata dello special team. Peyton cerca ancora Wayne ma non c'è nulla da fare. Entra Vanderjagt, calcio abbondantemente largo a destra da 46 yds e Pittsburgh vola a Denver per un Championship forse impronosticabile ad inizio stagione.
I Colts, seguendo l'ormai solito copione, salutano e rimandano all'ennesima "prossima stagione" il traguardo del Super Bowl. Gli Steelers, giocando la loro migliore partita degli ultimi anni, affronteranno la sesta finale di AFC dell'era Cowher. Con i nervi tesi, va detto, per l'intercetto tolto a Polamalu - Porter nel dopopartita ha parlato di una volontà chiara degli arbitri di 'spingere' Indy - e per il trattamento ricevuto dai media.
Ha iniziato Roethlisberger, che ai giornalisti che attendevano di entrare negli spogliatoi nel dopo partita ha detto:
Volete tutti entrare ora? Voi che non credevate in noi, volete entrare ora?
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E poi Foote:
Questa settimana nelle trasmissioni sportive non analizzavano neanche la nostra partita. Passavano direttamente alle altre, dicendo che Indianapolis avrebbe battuto Pittsburgh. Ma questo non importa, quando inizia la partita tutto questo scompare.
Scompare. Già , proprio come una squadra costruita per vincere, con una collezione incredibile di talenti ed un quarterback paradossalmente troppo bravo per arrivare a porsi un limite e troppo attaccato alla sua franchigia per essere lucido nei momenti decisivi. Serve una svolta per non perdere, o per evitare di veder fallire per tutta una carriera, un talento come Peyton Manning. Serve, forse, un nuovo head coach. Non per demeriti, anche se al saldo negativo ha partecipato anche Dungy, ma per ristabilire un minimo di equilibrio in una squadra che alla roulette del Super Bowl può giocare solo il numero 18.