Tremendo il lutto che ha colpito Tony Dungy, head coach dei Colts
Dicono che la morte sia parte integrante della vita. Che sia un passaggio obbligato e che, in fondo, il pensiero del giorno in cui si dovrà salutare questo mondo per andare chissà dove magari lo si può schivare.
Anche fino all'ultimo, ma c'è, ed è forte, dentro ognuno. Perché è nella natura delle cose compiere l'arco e scivolare fuori dal cerchio, lasciare tutto andarsene con il bagaglio enorme della propria vita.
Ma c'è una morte che l'uomo non capirà mai, una morte a cui neanche la mente più lucida e razionale potrà mai dare un senso logico. Ed è quella dei propri figli. Perché rovescia l'ordine delle cose, fa saltare il significato della propria esistenza. E, soprattutto, perché lascia impotenti.
Se il salto fuori dalla vita sia stato voluto o meno conta poco. C'è un ragazzo, James, che se n'è andato a 18 anni. Ci sono i suoi amici che giurano di averlo visto sorridente fino all'ultimo, di aver conosciuto un giovane semplice. Uno che si presentava come James e non come James Dungy.
C'è un padre, Tony, colpito da quanto di peggio la vita può riservare ad un genitore in quello che, forse, è l'anno più importante della sua vita nello sport. E c'è un traguardo enorme, storico, che improvvisamente diventa insignificante, forse quasi un problema.
L'head coach degli Indianapolis Colts ha perso suo figlio. L'architetto della squadra perfetta, quella più spettacolare, quella più sicura, quella lanciata prepotentemente verso il Super Bowl, d'improvviso si ritrova ad essere piccolissimo e indifeso, scoperto e vulnerabile di fronte a quanto di più incomprensibile possa accadere ad un genitore.
E viene da chiedersi per quale motivo la vita abbia rifiutato un ragazzo di 18 anni, perché la morte lo abbia strappato alla sua famiglia. E, senza nasconderci dietro un dito, perché tutto questo sia accaduto con questo tempismo crudele. La morte di James sarebbe stata tragica allo stesso modo sempre, in qualsiasi momento. Il football giocato non conta, ma il football è anche una parte, e grande, della vita di Tony Dungy.
E forse proprio per riuscire a capire, per motivare l'inspiegabile, quello che ci attrae, quello che salta all'occhio, è il bagliore di sadismo che scorgiamo dentro alla crudeltà assoluta di un padre che perde un figlio. Perché, a costo di essere ripetitivi e banali, è inspiegabile. Ed è difficile anche trovarsi di fronte a tutto questo. Una sensazione di grande inadeguatezza, un contesto dove tutto, anche il dolore, il cordoglio, la semplice vicinanza, sembrano stonare.
Mentre intanto, il mondo, va avanti. “Sulla base delle prove sul luogo la morte sembra essere dovuta ad un suicidio”, ha detto Debbie Carter, portavoce della polizia. Nell'appartamento di James nessun biglietto, nessun messaggio di spiegazione, nessun saluto.
“Non credo ci sia nessuno che desideri giocare una partita di football in una situazione simile”, ha spiegato Bill Polian, il presidente dei Colts, che giovedì mattina ha diffuso la notizia della tragedia. “Ma è nostro dovere – ha aggiunto – e rispetteremo questo impegno, perché ce lo chiede Tony”.
Ci sono le televisioni, i tifosi, i biglietti venduti. C'è un calendario da rispettare, una stagione che sta per cedere il passo ai playoff, alla corsa verso il Super Bowl, al Vince Lombardi Trophy tirato a lucido e alla festa di Detroit.
In mezzo, tra tutto questo e una famiglia che soffre una perdita incalcolabile, c'è una squadra. Ci sono 53 giocatori attesi da 60 minuti nel freddo di Seattle per quello che, forse, potrebbe ripetersi nella città dei motori per l'epilogo della NFL 2005. E' stato così anche il 14 novembre scorso, quando Bill Parcells se ne stava a bordocampo, per il Monday Night di Phialdelphia, poche ore dopo aver seppellito suo fratello. Forse, anche se non da subito, il football potrà essere la strada per uscire da questo momento difficilissimo.
E il mondo del football si sta stringendo intorno a Tony Dungy e alla sua famiglia. Andy Reid, Dennis Green, l'amico fraterno Herman Edwards sono stati i primi ad abbracciare idealmente l'head coach di Indy.
E Tony Dungy, lo scorso anno, proprio parlando di James aveva confessato di avere dei dubbi circa il prosieguo della sua vita sul campo: "Non so per quanto ancora allenerò nella NFL. Ho cinque figli e il più grande ha 17 anni. Temo di essermi fatto sfuggire troppo della sua vita e non voglio che la stessa cosa accada con gli altri".