Winning Eleven

I tifosi dei Colts non stanno più nella pelle!

C'è qualcosa in questa undicesima vittoria dei Colts che a ben guardare pesa più, molto di più, del record di 11-0 e della caccia, ancora aperta, ai Miami Dolphins del 1972. Indianapolis vince e continua a vincere cambiando volto, tanto che Tony Dungy deve aver scippato la borsa di Mary Poppins tirandone fuori risorse, soluzioni, protagonisti, modi di stare in campo e di mettere sotto l'avversario di turno praticamente infiniti.

Appena una settimana fa Indy vinceva lo shootout di Cincinnati battendo i Bengals sul terreno preferito della squadra di Marvin Lewis: il braccio del quarterback ed il talento dei ricevitori. Poi arriva il Monday Night nel dome di casa, contro i Pittsburgh Steelers. E i Colts vincono, 26-7, dominando nelle corse, sulla difesa nel gioco di corse e sull'impatto fisico e temperamentale. Ovvero sui tre punti forti della squadra di Bill Cowher.

Se le difficoltà  incontrate da Peyton Manning contro la zona di Dick LeBeau non fossero state così evidenti verrebbe da pensare che lo squadrone di Tony Dungy quest'anno stia cercando addirittura di divertirsi raggiungendo un livello di perfezione e trasformismo senza precedenti. Le verità  molto probabilmente non è questa. La verità , volendo trovarne una, è ancora migliore ed è molto più semplice.

I Colts sono finalmente una squadra completa, una squadra pronta per attaccare il rush finale di gennaio. Una squadra a cui, cercando per l'undicesima volta il pelo nell'uovo, mancano due esami: giocare con assenze pesanti e giocare una partita in salita. E, continuando nell'esercizio di ingratitudine di cui sopra, dovrebbero forse limitare l'eccessiva tendenza di Manning a fare e disfare tutto sulla linea di scrimmage.

Gli Steelers, invece, hanno confermato di essere tutt'altro che perfetti, di non avere quella favolosa linea d'attacco decantata da un paio d'anni e, soprattutto, di avere un problema in sede di coaching staff. L'onside all'inizio del terzo quarto? Chiamate simili – e Cowher un rischio del genere lo prese, con successo, nel Super Bowl perso 10 anni fa con i Dallas Cowboys - possono essere perle di genialità  o esempi di vicinanza alla specie asinina. Il limite sta, come sempre, nel risultato. E dopo il fatto, diceva qualcuno, anche un perfetto idiota rischia di passare per un genio.

No, il problema vero di Cowher e dell'offensive coordinator, Ken Wisenhunt, sta nella preparazione della squadra e nel numero sempre più basso di soluzioni in attacco. E, anche, in alcune chiamate al limite dell'assurdo: la quarterback draw, con un quarterback al ritorno da un'operazione, su un 4 & 4 fondamentale merita una seduta aggiuntiva dallo psicanalista: terapia di coppia.

Si dirà , molto probabilmente, che Pittsburgh ha giocato un football prevedibile, che correre sui primi due down e poi sfidare apertamente la difesa sul terzo è un errore. Che è sbagliato sbattere continuamente contro il muro della run D dei Colts. A ben vedere non è così, perché il football black'n'gold è questo e perché la partita ha detto che questa era la strada giusta per mettere la difesa nelle condizioni ideali per vincere la partita.

Dopo il 7-0 fulmineo – play action su primo down, Ike Taylor dimentica la zona e Marvin Harrison vola per 80 yds su una fly facile facile - i Colts, fatta eccezione per il touchdown concesso dall'onside chiamato da Cowher, hanno segnato solamente con il kicker Mike Vanderjagt. Arrivando ad avere addirittura paura (piccolo deja-vu per Dungy…) su un terzo e lungo affidato non al braccio di Manning ma alle gambe di James. Fermato.

Un segno evidente di come Dick LeBeau avesse preparato alla perfezione la partita in difesa, concedendo il minimo ai fenomeni a disposizione di Peyton Manning sul gioco aereo. In partite come queste, però, non si può sperare che tutto fili liscio come l'olio. Così, oltre al td regalato con l'onside, gli Steelers si sono ritrovati a perdere 10 punti anche con un field goal da 41 yds mancato dal solitamente impeccabile Jeff Reed.

La differenza tra Indy e Pittsburgh, tra Dungy e Cowher, è uscita qui. L'head coach dei Colts ha puntato su un Edgerrin James assolutamente devastante (29 palloni giocati per 124 yds), su un football fisico e d'impatto. Cowher, per aver gestito male i 3 running back a disposizione – 43 yds per Willie Parker, 9 per Jerome Bettis, 6 per Duce Staley - si è invece ritrovato a dover fare le due cose che gli riescono peggio: rimontare e dover dare smalto al gioco aereo, ancorato su primo e secondo down sempre alla stessa formazione.

Una scelta forse dettata dalla scarsa affidabilità  della linea d'attacco, che oltre a fare acqua un po' da tutte le parti, contrariamente a quella impermeabile rappresentata da un Jeff Saturday formato super, è incappata nell'ennesima giornata nera di Kendall Simmons (3 false start in un amen per una guardia sono imperdonabili) e nell'infortunio quasi immediato di Marvel Smith, che ha dovuto lasciare il posto di tackle sinistro al rookie Trai Essex. Il ragazzino, tutto sommato, se l'è cavata bene contro Mr. Dwight Freeney.

Ma, a lungo andare, la pressione della pass rush migliore della NFL ha piegato Ben Roethlisberger, tornato dopo 3 settimane di assenza per l'operazione al menisco. Big Ben, insolitamente, è stato molto pulito nella prima metà  della partita (bellissimo il td pass per Hines Ward, ripetuto in fotocopia in apertura di terzo quarto da Manning per un Bryan Fletcher in versione Dallas Clark) per poi risultare nervoso ed impreciso negli ultimi due quarti, a disagio nella sua grande dote - il lancio sulla corsa - e assolutamente colpevole nei due intercetti lanciati.

Pesante il secondo, bruttissimo il primo, con un passaggio forzato nonostante spazio a volontà  per chiudere la scramble in un primo down. La pessima giornata di Roethlisberger e dei running back non può però sminuire quanto fatto dalla difesa dei Colts, perfetta nelle secondarie, efficacissima sulla linea di scrimmage e, soprattutto, forte di un Bob Sanders in forma strepitosa.

Quello che ha stupito dei Colts, visto che ormai Reggie Wayne e soci non fanno più notizia, è il carattere, la carica emotiva mostrata fin da subito in faccia agli Steelers. Là  dove Pittsburgh avrebbe sulla carta un certo vantaggio, i Colts, anche qui, hanno giocato e vinto sul terreno preferito dagli avversari. Marvin Harrison carico come una molla e stranamente litigioso (si è beccato un personale per un corpo e corpo con Ike Taylor) è forse l'immagine più eloquente di questa Indianapolis diretta come un treno verso Detroit: tecnica, classe, carattere e voglia infinita di vincere.

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