Torneo NCAA – Up and Down (2)

Una curiosa espressione di Joakim Noah

LE CONFERME: Florida e UCLA

Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più? In un torneo che quest'anno si presentava incerto ed indecifrabile come raramente, quale modo migliore per smentire queste previsioni di una bella riproposizione in semifinale della finalissima dello scorso anno?

E quale solluchero migliore per gli appassionati italiani, che in questa settimana stanno escogitando le più astute e diaboliche scuse per evitare qualsiasi intoppo alternativo alle due semifinali della notte tra sabato e domenica?

A dire il vero l'incertezza di quest'anno non era tanto data dall'assenza di grandi squadre e dal rischio di avere una o più Cenerentola nella fase finale, quanto al contrario dalla circostanza che ci fossero troppe favorite e tutte attrezzate per arrivare fino in fondo, rendendo così ostica l'individuazione di una “primus inter pares”.

I Gators sono esattamente gli stessi dell'anno scorso con se possibile un Brewer ed un Green ancora più maturi ed un Humphrey sempre più in grado di cambiare il corso delle partite con le sue conclusioni dal perimetro. Se poi, quando un monumentale Horford scala le marce, sale in cattedra il leader storico Noah a farne le veci come successo nella vittoria su Oregon, l'effetto “deja vu” rispetto all'edizione 2006 della March Madness si fa completo ed inquietante ed il pronostico si sposta tutto su di loro, nonostante il figlio di Yannick stia crollando nell'immaginario collettivo da uomo decisivo e potenziale terza scelta assoluta ad ultima ruota del quintetto ed oltre la quinta posizione al draft.

I Bruins difendono, difendono e difendono, ma può cominciare a diventare limitativo considerarli solo una squadra degna nella propria metà  campo e sotto standard in quella offensiva, specie per i teorici di una delle due massime di maggior successo dello sport di squadra moderno, ovvero “il miglior attacco deriva dalla difesa” (non facciamoci sentire da D'Antoni e Nelson, portatori sani dell'altra metà  filosofica). Seconda Final Four consecutiva, questa volta senza Farmar ed Hollins, e grande occasione per una rivincita coi fiocchi contro Noah e soci: coach Howland (non solo a mio avviso vero artefice del ritorno di UCLA ai vertici) si può già  considerare uno dei più credibili successori di Schwarzenegger come 39esimo Governatore della California.

LE SORPRESE: Oregon, Texas A&M, Xavier e Vanderbilt

Quest'anno gli upset hanno deciso di marcare visita e le varie Cenerentole hanno miseramente optato per rimanere a casa a lavare i piatti ed andare a letto a mezzanotte invece di presentarsi al grande ballo. Ecco quindi come si spiega il mio ennesimo macello nell'assegnazione di questo riconoscimento, con un bel minestrone di quattro squadre che per altro non hanno pure fatto tanta strada nel torneo.

Parlare di sorpresa riferendosi ad Oregon è certamente fuori luogo, ma merita almeno la citazione per essere stata l'unica testa di serie oltre la numero due ad arrivare a giocarsi l'accesso alla Final Four. Il fatto poi che fosse la numero tre rende questa presenza incomprensibile ed in parte ridicola, ma i tascabili Porter e Brooks sono stati entusiasmanti ben oltre le più ottimistiche previsioni: il primo con i 33 punti ed il micidiale 8 su 12 da tre con cui ha condotto i Ducks alla vittoria contro UNLV, il secondo con i generosissimi 27 punti che non sono però bastati a sconfiggere una superiore Florida. Il metro e sessantotto di Tajuan Porter, in particolare, merita di essere seguito con estrema simpatia per quella straordinaria facilità  di esecuzione dalla linea dei tre punti.

Anche Texas A&M non era certo tra le meno accreditate alla vigilia, anzi era addirittura segnalata al settimo posto assoluto nel ranking di fine stagione e deteneva nelle sue fila nientemeno che il primo quintetto All-America Acie Law, illustre candidato oggi a vedere il suo nome tra le prime 14 scelte del prossimo draft. Proprio le prestazioni della piccola guardia hanno permesso agli Aggies di arrivare ad un soffio dalla qualificazione ai danni di Memphis, uscendo sconfitti 65-64 in una delle più belle ed intense partite del torneo.

Xavier e Vanderbilt sono invece le due grandi incompiute, le due grandi sorprese mancate. I Musketeers guidati da Justin Cage hanno costretto Oden e compagni al supplementare raggiunto per altro solo grazie al canestro da tre di Ron Lewis allo scadere dei regolamentari, mentre i Commodores guidati da Derrick Byars sono arrivati a 3 secondi oltre che ad una decisione arbitrale contestabile dal battere Georgetown. Inutile dire che la proprietà  transitiva non vale nel basket ed ancora meno nel torneo NCAA, ma visto che poi Ohio State e gli Hoyas sono finiti alla Final Four…

LA DELUSIONE: Duke

Per i motivi già  più volte proposti in precedenza, è difficilissimo quest'anno trovare il college che non ha confermato le aspettative, specie se si considera che sono arrivate alle finali dei Regionals (quarti di finale all'europea) 7 delle 8 squadre maggiormente quotate all'avvio e dal committee che ha creato il tabellone. La stessa Wisconsin, unica testa di serie numero 2 uscita prima delle Elite 8, era stata chiaramente battezzata ad inizio torneo come una delle maggiori indiziate ad una prematura uscita di scena a causa di un livello di talento generale inferiore al ruolo occupato nel ranking ed in tabellone.

Ed allora perchè non provare a farsi odiare dalla foltissima legione di tifosi dei Blue Devils individuando in Duke la delusione del torneo? Per la verità  già  ad inizio anno i ragazzi di coach K non erano considerati tra i favoritissimi, benchè poi la nidiata reclutata dallo stesso Krzyzewski godesse invece del solito eccessivo credito sul piano delle individualità . La stagione regolare è andata ben presto verso meridione, con per loro disastroso record del 50% (8-8) nella ACC, ma da qui ad aspettarsi il coinvolgimento nella cosa più vicina ad un upset del torneo 2007 – in un 79-77 contro la non certo irresistibile Virginia Commonwealth al primo turno – ce ne passa!

Il clima nei pressi del Cameron non sembra essere stato dei migliori, se si valuta anche la cronaca recente che vede il Blue Devil più rappresentativo, McRoberts, segnalatosi come uno dei primissimi giocatori a dichiararsi ufficialmente per il draft NBA. Fin qui forse niente di particolarmente anomalo, ma ad incuriosire è il silenzio che giunge dagli uffici accademici senza nemmeno quelle “ho cercato di convincere Josh a rimanere” o “siamo dispiaciuti di non poter rivedere Josh l'anno prossimo” di circostanza, quasi come se il coach abbia avallato o anzi addirittura contribuito a questa fuga.

Difficile sostenere che McRoberts come singolo abbia deluso, considerando i 22 punti e 12 rimbalzi della sua unica apparizione stagionale al torneo. Scagionato anche un ottimo Paulus con i suoi 25 punti, il dito non si può nemmeno puntare sul terzetto freshman Henderson, Thomas e Scheyer, che l'anno prossimo condurrà  il team ad una stagione presumibilmente migliore.

Provare a riconquistarmi le simpatie dei tifosi di Duke potrebbe così non essere una missione impossibile, se si considera anche da un lato la clamorosa infornata di talenti in arrivo dall'High School (Taylor King, Kyle Singler, Nolan Smith) e dall'altro la goduria da loro sicuramente vissuta nell'aver visto i rivali storici di North Carolina risvegliarsi in quel modo balordo dal sogno Final Four.

L'HARAKIRI PREVEDIBILE: Kansas

Toh, i Jayhawks sono usciti appena prima della Final Four. Non si può certo far rientrare la loro eliminazione nella categoria “chi l'avrebbe mai detto?”, perchè la regola all'origine di uno dei più longevi psicodrammi sportivi del basket statunitense moderno è di una banalità  direi quasi storica: sommando il talento dei singoli tasselli che compongono una squadra, non necessariamente si raggiunge la cifra attesa.

Detto in altri termini, tanto talento non vuol dire automaticamente tante vittorie, specie a livello collegiale, e nessuno come Paul Pierce, Kirk Hinrich, Drew Gooden, Nick Collison, Jacque Vaughn, Scott Pollard e Raef LaFrentz poteva spiegare meglio questo concetto ai loro alma mater odierni.

Dopo una bella prestazione contro Kentucky e la non facile vittoria contro la tignosissima Southern Illinois che facevano sperare nella fine della maledizione, ecco arrivare quello che fin dalla compilazione del tabellone era nettamente lo scoglio più complesso e la testa di serie numero 2 più temibile.

Ipse dixit: UCLA 68 – Kansas 55.

Perdere contro questi Bruins, si badi bene, ci può stare eccome, ma intanto il modo è stato piuttosto brusco e soprattutto le prestazioni dei singoli clamorosamente sotto tono rispetto alle attese. Sul mio Julian Wright non mi dilungo oltre per non riannacquare con le mie lacrime la tastiera appena asciugata; Chalmers è stato un fantasma; il metà  pasticcione – metà  talentuoso Robinson ha fatto vedere solo il primo 50%; a Kaun (per i limiti atletici e tecnici) ed a Darrel Arthur (per la scarsa esperienza) non era certo possibile chiedere lo sforzo per portare i Jayhawks ad Atlanta.

L'unico che ci ha provato è stato Brandon Rush: a lungo chirurgico e preciso in tutto il torneo, ha però messo in mostra quella intermittenza del suo talento scomparendo nei momenti chiave della sconfitta contro i losangelini, confermando in pieno quelli che erano già  stati diagnosticati come i suoi grandi limiti, ovvero l'approccio mentale e la continuità .

Wright e Chalmers torneranno l'anno prossimo per riprovarci (e, non secondario, per ottenere la laurea), mentre Arthur e lo stesso Rush tentennano “on the fence” e strizzano pericolosamente l'occhio al primo giro del prossimo draft.

L'HARAKIRI IMPREVEDIBILE: North Carolina

L'imprevedibilità  della sconfitta di UNC contro Georgetown non regge in assoluto, perchè gli Hoyas alla Final Four non possono essere considerati una sorpresa nè tale può considerarsi una loro vittoria contro i Tar Heels. L'imprevedibilità  della sconfitta di UNC risiede invece solo nella situazione che si era creata a 6 minuti dalla fine, quando sul 75-65 le valigie per Atlanta sembravano ormai pronte.

Non sono oggi un espertissimo in materia, ma spesso mi sono trovato in adolescenza a trascorrere il tempo con giochi al computer in cui un ruolo chiave era rappresentato dalla “stamina” (o concetti simili), ovvero quella barra colorata in costante drammatica diminuzione e sintomatica di volta in volta dell'energia ancora nel corpo del nostro eroe, della benzina ancora nel serbatoio della nostra vettura o del tempo ancora a disposizione per completare quella certa missione.

Ecco, la sensazione è che quella barra abbia fregato clamorosamente i Tar Heels, come se da un minuto all'altro siano passati dal massimo della potenza al totale esaurimento scorte.

La cosa per altro è piuttosto sorprendente, perchè se c'è una squadra che ha sempre fatto della profondità  del roster uno status quo, quella è certamente North Carolina, come dimostra non a caso la prestazione dalla panchina di Deon Thompson, forse migliore in campo insieme al macroscopico Hansbrough dei primi 35 minuti. Proprio il calo e gli errori del generosissimo Tyler nel finale sono stati tra i motivi della sconfitta, mentre l'imprecisione al tiro da fuori ed il clamoroso supplementare di Georgetown hanno fatto il resto.

In realtà  infatti il paragone della barra stamina per spiegare il crollo tiene fino ad un certo punto, perchè più che sull'aspetto fisico-atletico è preferibile spostare le indagini della sconfitta sulla giovane età  dei giocatori chiave dei Tar Heels e su un'altra delle regole basilari del torneo NCAA puntualmente confermata: “Tre freshman in quintetto? Niente titolo!”.

Non del tutto esente da responsabilità  anche la gelida gestione di uno stralunato coach Roy Williams nel finale, tanto strepitoso quando si tratta di reclutare i migliori talenti dall'High School quanto deficitario nel condurli alla vittoria sul campo, come dimostra il suo palmares non certo sprovvisto di clamorose ed inattese eliminazioni al torneo con la solita Kansas prima e la stessa North Carolina poi. Il liberatorio titolo del 2005 gli assicura tuttavia un ampio bonus da giocarsi anche nei prossimi anni.

La brutta notizia è che di quei tre freshman pare destinato a fare il grande salto proprio quello di maggior consistenza oltre che velleità  NBA, Brandan Wright; quella buona è invece rappresentata dai probabili (sempre muoversi coi piedi di piombo in questa materia) ritorni di Hansbrough ed Ellington e da quello quasi certo di Lawson, ovvero altri tre ottimi motivi per essere ancora tra le favorite nel 2008.

LA SORPRESA TATTICA: La Princeton Offense ed il backdoor dei cagnacci

Disciplina, pazienza, importanza delle spaziature, area libera, costante movimento di palla ed uomini, ma soprattutto tagli backdoor o in alternativa passaggi consegnati. Sono questi in estrema sintesi i principi base e gli aspetti esteriori della Princeton Offense e sono state queste le chiavi dei successi del giovane Thompson sulla panchina di Georgetown.

I rischi di questo sistema offensivo sono molteplici, specie se interpretato da ragazzi a mala pena ventenni: poco attacco al canestro, sgradevolissime e poco rimediabili incomprensioni tra palleggiatore e tagliante con conseguenti sanguinose palle perse, delicatezza dei passaggi per il backdoor talvolta indirizzati verso l'area intasata, dipendenza a tratti dal tiro perimetrale, scarsa produttività  contro certe difese a zona. Quando il meccanismo offensivo è oliato alla perfezione, però, si raggiungono altissimi tenori di raffinatezza ed efficacia, anche a livello NCAA grazie ai 35 secondi che dilatano i tempi dell'esecuzione rendendo l'azione meno frenetica.

Green è un interprete illuminante di questo sistema, con la sua completezza tecnica, atletica e nella comprensione del gioco, così come Hibbert è l'ideale pennellone tutt'altro che sprovvisto di letture adeguate ma anzi fortemente strumentale dai post nello sviluppo delle dinamiche dei cagnacci. Gli stessi canestri di un sempre più convincente Wallace nel minuto finale dei regolamentari contro UNC, del decisivo e sorprendente Sapp e del freschissimo primo anno Summers nei supplementari non sono giunti da occasionali isolamenti o dopo schemi frutto del panico e dell'improvvisazione, a dimostrazione della lucidità  di esecuzione degli Hoyas anche nei momenti cruciali della stagione.

Pete Carrill può essere fiero di uno dei suoi allievi prediletti, mentre papà  John – nonostante l'aplomb mantenuto in postazione televisiva di commento – avrà  avuto sicuramente tanta voglia di sventolare all'aria quell'asciugamano bianco che teneva appoggiato sulla spalla e che era diventato il suo marchio di fabbrica quando sedeva su quella stessa panchina, soprattutto in ricordo di quel 1982 e di quella finale più volte evocata in questi giorni, persa contro la North Carolina di uno interessante con il numero 23 e di un altro non male che faceva di nome James Worthy.

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