Arron Afflalo, perfetto contro Kansas
MVP: Jeff Green e Arron Afflalo
Se c'è una cosa che gli americani odiano più degli avvocati, delle assicurazioni, dei francesi e delle diete, è certamente far condividere un premio individuale a più giocatori. Forse a me manca anche la personalità per fare scelte difficili o più semplicemente siamo in Italia e ci si può quindi permettere questi papocchi, ma mi è davvero difficile stabilire chi tra un ineffabile Green ed un inenarrabile Afflalo meriti la palma di miglior giocatore del torneo prima della Final Four.
Entrambi hanno trascinato le loro squadre ad Atlanta, ma mentre Arron era stato già più volte pizzicato a decidere partite nei minuti finali anche nella regular season dei Bruins, Jeff ha fatto quell'ulteriore salto di qualità sul piano della leadership e della personalità in attacco che tanto auspicavano i suoi estimatori. Può darsi che abbia fatto infrazione di passi nella giocata che a 3 secondi dal termine ha permesso agli Hoyas di superare di un punto Vanderbilt, ma nei libri di storia finirà lo stesso lui come l'artefice di uno dei canestri più decisivi dell'intero torneo 2007.
Giocatore completo fisicamente e versatile tecnicamente, grande interprete della Princeton Offense, intelligente e con rara comprensione del gioco, grazie a questo torneo sopra le righe Green sta scalando i vari mock draft che dopo averlo a lungo relegato fuori dalla lotteria cominciano a rendergli ciò che si merita con addirittura capatine nelle prime 5/6 scelte assolute. Oltre ad aver vinto la gara con Vanderbilt, è stato sontuoso nel trascinare Georgetown alla grande rimonta su North Carolina, con 22 punti e 9 rimbalzi in 42 minuti di grande impatto emotivo e costante presenza nella partita.
Quanto ad Afflalo, ci sono due modi per affrontare la visione di una gara di college e per giudicare i vari giocatori: il primo è il più schietto e puro possibile, ovvero godersi ogni singola giocata in quanto tale e le emozioni che la partita e questi giovanotti ti procurano; il secondo è il più artefatto ed ingannevole possibile, ovvero rovinarsi lo spettacolo valutando un giocatore non in funzione di quello che sta facendo in quel momento sul campo ma in funzione di quello che potrebbe fare un domani tra i professionisti.
Chi come me opta in regular season per quest'ultima soluzione, non riesce ad apprezzare o apprezza solo in parte l'intelligenza difensiva ed i momenti di pulizia offensiva di Afflalo, ma è attirato di più da quel suo atletismo sospetto e da quel palleggio troppo insicuro che per un ragazzo non altissimo come lui potrebbero diventare un enorme problema in prospettiva NBA. Poi per fortuna arriva il torneo NCAA, ci si sposta verso l'approccio più godereccio misurando il tutto sul presente e non sul futuro… e di colpo Afflalo appare per quello che è, ovvero un grandissimo giocatore tutto campo di basket universitario.
Contro Kansas la sua partita si colloca nelle più strette vicinanze della perfezione, con chirurgici canestri spesso in uscita dai blocchi – degna di nota la serie (Triple Screen) predisposta per il suo gioco senza palla da coach Howland – ed inappuntabile contributo nella propria metà campo, anche se poi nel sistema difensivo di UCLA resta sempre il dubbio che anche qualche giocatore di serie D italiana possa fare un gran bel figurone. Sta viaggiando poco al di sotto dei 20 punti a partita nel torneo ed anche lui sta ponendo le basi per bussare la porta alle prime 20 scelte del prossimo draft.
LE CONFERME: Greg Oden e Al Horford
“Però… però in attacco… boh… non segna molto… non ha tantissimi movimenti… ha anche avuto problemi di falli… Ohio State ha tanti buoni giocatori… e poi sembra un quarantenne!”. Benissimo, tutto giustissimo, però… però vince! Vince e fa vincere, da 21 partite, anche in circostanze avvilenti come sul -17 contro Tennessee ed anche con una stoppata od una giocata difensiva magari meno appariscente ma non per questo meno provvidenziale di un canestro da tre o di una fluida penetrazione.
Questo è Oden e questo è ancora il motivo per cui, per il povero fortunato GM che si troverà a dover scegliere per primo nel prossimo draft, credo che lo zio Greg sia ancora preferibile all'ammaliante e suggestivo talento di Kevin Durant.
Scendendo invece nella categoria “siamo anche noi possibili campioni ma siamo capitati nel draft sbagliato”, nella corsa per la terza scelta assoluta (al momento ancora di proprietà Brandan Wright, UNC) si è ormai stabilito in corsia di sorpasso e con la freccia lampeggiante da più di un mese il vice-leader di Florida, Al Horford.
In questo torneo è sembrato essere nuovamente giocatore più rifinito e completo tecnicamente rispetto al suo compagno Noah, che ha invece scialacquato una parte del credito di cui godeva ad inizio anno ma che a sua volta è salito immediatamente di livello emotivo non appena – nella finale dei Regionals contro Oregon – il buon Horford è andato fuori giri. La lotta intestina tra i due Gators (in realtà grandi amici ed in ottimi rapporti) è un alternativo motivo di interesse del prossimo fine settimana.
Meriterebbero una citazione anche il piccolo Aaron Brooks di Oregon, il talento di Brandon Rush ancora troppo intermittente per portare in fondo Kansas, il cuore enorme del Tar Heel Tyler Hansbrough e la faccia tosta dal perimetro di Jeremy Hunt per la sua Memphis, ma tutti loro hanno un solo piccolo enorme difetto: non sono arrivati alla Final Four. Ciò non toglie che il torneo di quest'anno sia stato un pò anche il loro.
LA SORPRESA: Mike Conley JR
Mentre tutti gli occhi erano orientati su Oden e su come con 2 o 3 giocate difensive egli possa decidere e vincere le partite preferibilmente nel minuto finale, negli altri 39' di gioco delle partite di Ohio State imperversava un dinamico folletto con crescenti sprazzi di talento e con DNA evidentemente plasmato per le grandi imprese sportive. Il papà con tre zompi arrivava nei primi anni '90 oltre i 18 metri e riscriveva il record mondiale del salto triplo; il figlio con un terzo tempo arriva oggi con naturalezza in area avversaria e contribuisce a riscrivere la storia della sua accademia.
Anche in tutte le partite di regular season dei Buckeyes buona parte delle attenzioni era puntata sul centrone dall'Indiana, per vedere come il suo polso sinistro lasciava andare la palla ai liberi, per vedere come i suoi piedi sapevano lavorare in difesa e potevano aiutarlo in attacco, per vedere come la palla finiva in modo trascendentale tra le sue mani, sia da stoppata che da rimbalzo. Poi arrivavi alla fine della partita con tutte le proiezioni in testa di Oden su parquet NBA, e sorgeva inevitabile una considerazione a parte: “Accidenti, non male quel playmakerino freshman!”.
Non ricordo molte point guard recenti al loro primo anno universitario con un impatto nel torneo simile a Mike. Certo, non ci si ricorda nemmeno molte point guard che avevano in squadra tale Greg Oden ed un supporting cast di assoluto prestigio come quello che vanta Ohio State, ma l'unico precedente analogo a mia memoria decennale è rappresentato da un altro Mike, ovvero quel Bibby che guidò i Wildcats di Arizona al titolo nel 1997.
Conley è meno ragionatore, meno protagonista ed in assoluto ha anche meno talento dell'attuale play dei Kings, ma la personalità nelle partite di prestigio (21, 17 e 19 punti nelle ultime tre del torneo) e la capacità di assumersi responsabilità nei finali sono le stesse, alle quali si aggiungono poi una squisita rapidità in palleggio ed in penetrazione tuttavia inversamente proporzionale alla qualità nel tiro da fuori. Può essere l'ago della bilancia della Final Four, nel bene o nel male per gli ippocastani.
LA DELUSIONE: Julian Wright
Verso lacrime sconsolate ad ogni tasto digitato in questo paragrafo, ma il mio pallino Julian ha fatto cilecca proprio quando contava di più e purtroppo la sua apparizione come abbacchiato principale del torneo temo sia inevitabile. In realtà mi potrei ben presto asciugare occhi e guance considerando il fatto che il Wright di Kansas sia storicamente un secondo o terzo violino e non certo il trascinatore della squadra sul piano realizzativo ed in generale offensivo.
Potrebbe quindi non essere il folle torneo NCAA il contesto più adatto al suo IQ cestistico, ma questo pur valido alibi non è sufficiente per giustificare la lunga assenza delle sue giocate utili che tanto avevano impressionato gli osservatori in regular season.
Ha toppato in particolare la gara contro UCLA, con un linguaggio del corpo incomprensibile, sconosciuto fino a quel momento ed in cui a poco serve ravvisare un'umana emotività non gestita adeguatamente (modo garbato per dire che se la potrebbe esser fatta addosso), che costituirebbe anzi un'ulteriore aggravante per un ragazzo della sua solidità . Ha contribuito così ad arricchire il consueto pastrocchio pluriennale dei talentuosi Jayhawks in prossimità delle Final Four, caso ormai adatto a disquisizioni psicosociali.
La cosa peggiore per chi scrive è che un altro suo protetto, Thaddeus Young, si merita insieme al suo compagno freshman Javaris Crittenton il podio di questa amara classifica delle delusioni, anche se le loro sono meno fragorose e giunte in un contesto meno ambizioso in quel di Georgia Tech, sconfitta al primo turno dalla più quotata UNLV.
Il lato positivo della vicenda è che, come per Wright per il quale pare esserci l'ufficialità , anche per i due Yellow Jackets sembra prospettarsi la permanenza nell'universo NCAA per la prossima stagione e per una più credibile candidatura al draft 2008, magari con qualche turno di torneo superato in più. Vietato fidarsi della prima impressione, tuttavia, perchè tra un mese il profumo sempre più intenso del draft può ribaltare qualsiasi intento o dichiarazione.
LA SPERANZA: Daniel Hackett
Daniel? Ma no, Daniele! Anzi, Daniele Lorenzo! I più attenti osservatori del pianeta NCAA e buona parte degli appassionati marchigiani – pesaresi nel dettaglio – già ben conoscono la storia che si nasconde dietro questo nome. Figlio di quel Rudy che solo alcuni over 35 ricorderanno negli anni '80 a Livorno, Forlì, Reggio Emilia e Porto San Giorgio, Daniel è cresciuto ed ha quasi completato la trafila delle giovanili a Pesaro, fin quando tre anni fa si è trasferito negli States macinando quintali di studio per accedere all'università (USC) con un anno di anticipo rispetto ai suoi coetanei e per la gioia di coach Tim Floyd che aveva annusato il colpaccio in anticipo (anche se ad onor del vero ha influito in questo panorama la drammatica uccisione del play titolare nel 2006, Ryan Francis).
In prospettiva azzurra (che è all'origine di quella “speranza” che introduce l'argomento) dimenticate pure tediosi ma delicati dibattiti del genere “naturalizzati sì – naturalizzati no”, “Camoranesi sì – Camoranesi no”, “Mason Rocca abbastanza – Dante Calabria forse”, “cantano l'inno magari – sono italiani dentro così e così”: Daniel è italianissimo, sulla carta d'identità ma ancora di più nel cuore, nell'anima e persino nell'accento. Oltre che ovviamente nelle aspirazioni, perchè pur essendo un prospetto interessante, Team USA difficilmente gli aprirà le porte in futuro e coach Recalcati (o chi per lui) potrebbe tra qualche anno coprire il piccolo buco nazionale nel ruolo di playmaker.
Alla sua prima apparizione al torneo ha alzato il livello del suo gioco e delle sue cifre in regular season (5 punti in circa 20 minuti), facendosi notare contro California prima, con tanto di giocate decisive nell'ultimo minuto, ed ergendosi a protagonista contro Durant e la sua Texas poi, contenendo lo stesso Kevin per più di un'azione grazie alla sua clamorosa duttilità ed intelligenza difensiva e siglando la bellezza di 20 punti, ovviamente suo career-high. Netto ma prevedibile il ridimensionamento contro North Carolina, con soli 5 punti in 29 minuti e parallela uscita di scena dei suoi Trojans dalla March Madness.
In attacco non è ancora un fenomeno, gli manca un pizzico di creatività nel passaggio e di sicurezza nel palleggio se pressato, oltre che nel tiro da fuori che però comincia a prendere con più fiducia visto che la meccanica è davvero buona. E' un play-guardia diligente con qualche lettura da registrare ma è soprattutto un penetratore notevole con fondamentali completi: assoluta specialità del repertorio è l'abilità nel concludere dopo il contatto in acrobatici controtempi di insospettabile fisicità (è quasi 2 metri!), che lo fanno flirtare spesso con giochi da 3 punti.
L'anno prossimo dovrà farsi largo tra una superstar annunciata come OJ Mayo in arrivo dall'High School, ma visto l'impatto avuto al torneo ha già posto le basi per essere considerato l'ideale futuro completamento della prossima stella di USC. E, perchè no, anche un futuro nazionale under 20?
LA DELUSIONE TATTICA: La zona press solo accennata e le difese meno fantasiose
“Oh oh! Oh oh!! Iaix, mi piace questo, ok? Ohhh, nuuoo, ma perchè tu non continui questo, coach?!? Mmmmmh, spiegatemi voi questa cosa, ok? Perchè io non so!”
Chi ha seguito le partite dei Regionals con il commento di Dan Peterson, avrà vissuto questa situazione ed ascoltato queste parole parecchie volte.
Basket college ha sempre significato “fantasia difensiva al potere”, sia come identità di squadra e fondamenta di ogni successo (e spero di non essere il solo che si è innamorato del pianeta NCAA con Pitino e la sua zone press a Kentucky), sia in ambito March Madness quando il panico da eliminazione e fine imminente dei sogni fa mettere in pratica ai vari coach quegli esperimenti tecnici provati solo in allenamento e riesumati dal cassetto solo per le grandi occasioni o per le situazioni più disperate.
Invece quest'anno non solo si sono viste poche grandi novità sul piano tattico e difensivo nello specifico – al di là dei singoli spettacoli di altissima qualità individuale (Oden) e di squadra (UCLA) – ma uno dei pochi dati tecnici originali è stata una prassi a dir poco curiosa: la finta di zona press!
Lo scenario era infatti spesso il seguente: rimessa dal fondo con esecutore disturbato, le due guardie marcate strette e schieramento classico 1-2-2 della difesa tutto campo che faceva pensare ad un trappolone geniale in arrivo, ma il più delle volte non appena la palla giungeva nelle mani di un attaccante, i difensori si staccavano ed arretravano mestamente nella propria metà campo, senza gli adeguamenti ed i raddoppi previsti dallo sviluppo naturale di un pressing come Pitino comanda.
Memphis, North Carolina, Kansas, Kentucky e la stessa UCLA sono solo alcune delle artefici di tale misfatto, reso niente più di una banale azione dimostrativa di disturbo, quasi come il giocatore che si mette davanti al portiere sul calcio d'angolo o il tennista che sul secondo servizio dell'avversario avanza di qualche metro dentro il campo per intimidirlo e sollecitarne l'errore.
E la genuina delusione di coach Peterson era sinceramente condivisibile.