Playground o College ?

Jamaal Tinsley è uno degli ultimi prodotti dei playgound di New York…

In America, si sa, il basket è (insieme al baseball ed al football) uno sport “nazionale”, nella accezione che a questo termine si attribuisce quando viene comunemente praticato per strada dai ragazzini, che sognano di diventare come i loro idoli dello sport professionistico.

Ogni famiglia di bianchi ha nel suo giardino un tabellone con il canestro, dove esercitarsi al tiro, mentre i neri sono soliti andare a giocare nei playground, ossia per strada, negli spazi aperti, con un tabellone di lamiera ed un ferro senza rete. Ovviamente, la “riduzione” dello sport ad una esercitazione ludica stradale si compie su livelli più ridotti di “organico” rispetto allo sport giocato.

Così come nel baseball e nel football, difficilmente si trovano squadre intere, 5 contro 5, e più spesso si vedono incontri 3 contro 3, o, addirittura, sfide “all'ultimo sangue” di 1 contro 1.

I più famosi playground sono sicuramente quelli newyorkesi di Harlem, ossia la massima espressione del basket nero di strada. La stragrande maggioranza della popolazione nera metropolitana continua infatti a non potersi permettere economicamente gli studi al college, per cui l'unica possibilità  di praticare lo sport più amato dalla gente di colore resta la strada.

Il paragone più affine che si può tentare, per capire la matrice “povera” dello sport di strada, è nel calcio (il “soccer”, come lo chiamano gli americani) giocato nei campetti di strada dai ragazzini argentini o brasiliani. Eppure, nonostante questi piccoli campioni non abbiano mai frequentato scuole di tecnica, è su questi campi che sono nati i Maradona o i Ronaldo.

In parallelo, anche il basket di strada ha regalato i suoi campioni migliori prendendoli tra i ragazzini neri dei playground: Iverson, per esempio, ma anche Payton, oppure il classico newyorkese Tinsley. Qual è la caratteristica tecnica di questi giocatori, rispetto a quelli di scuola “classica”?

Anzitutto, occorre capire che queste “sfide” di quartiere funzionano con la più classica delle leggi di Darwin: la “selezione naturale”. Spesso gli incontri sono legati a rivalse tra gruppi (o, a volte, tra “bande”), anche con scommesse in denaro sui possibili vincitori. Non conta, quindi, se hai del talento, o un fisico che, in prospettiva, può portarti lontano: conta vincere hic et nunc, qui ed ora.

Ancora, come spesso avviene al livello di pratica dilettantesca, capita che un giocatore “esteticamente” assai poco apprezzabile sia invece molto efficace sul piano dei risultati. Le caratteristiche del gioco, quindi, risentono, da un lato, della mancanza di vere e proprie “squadre” e, dall'altro, di alcune caratteristiche tipiche del gioco della gente di colore. Non c'è alcuna valutazione razzistica, ovviamente, ma i neri vivono una condizione economicamente disagiata alla quale fa da contraltare un orgoglio razziale ipersviluppato, un senso di rivalsa latente, ma incombente, a cui è accoppiata la coscienza di mezzi fisici ed atletici superiori alla media della gente bianca.

Il basket da playground è quindi uno sport tendenzialmente individualistico, in cui ogni giocatore vuole brillare per sè, più che per il lavoro di squadra. Esso, tuttavia, sviluppa in modo intenso le dinamiche del gioco a 3, con un play, un mezzo lungo ed un lungo: pick and roll, blocchi, cambi, mezze ruote, giochi tra play, ala e post basso vengono spesso attuati in modo assai istintivo ed efficace, ma altrettanto di frequente senza visione generale dell'equilibrio difensivo, dello sbilanciamento in attacco e del conseguente contropiede (o “transizione”).

La difesa a zona, in questo quadro, è praticamente sconosciuta, essendo un tipico prodotto della scuola del college, così come sono assai poco praticati gli aiuti difensivi, o addirittura lo “scambio” tra difensori, tranne, in qualche caso, per puro istinto di difesa del canestro.

La difesa è interpretata, come l'attacco, nient'altro che come una “sfida” dell'uomo contro l'uomo, che esula dal gioco di squadra, ed è quasi sempre una specie di “questione privata” con l'attaccante. Quanto all'attacco, l'ipersviluppo dell'1 contro 1, insieme alla scarsa qualità  dei canestri e dei tabelloni, fa propendere il gioco verso un continuo attacco e tiro ravvicinato a canestro, evitando spesso i tiri dalla lunga distanza, che non consentono alte percentuali, mentre la presenza di spazi liberi di campo, per mancanza di squadre intere, porta il giocatore a cercarsi continuamente la zona libera dell'area avversaria.

Questo consente che, spesso, un giocatore piccolo si possa permettere di effettuare dei tiri a canestro in acrobazia o ad effetto, pur senza saltare, ma essendosi smarcato a sufficienza per tirare anche “dal basso”: esempio tipico di queste tecniche di tiro è proprio “The Answer”. Se fosse schierato in campo un intero quintetto, difficilmente tiri del genere giungerebbero a canestro, perchè un aiuto difensivo di un lungo arretrato propizierebbe una stoppata clamorosa.

Anche nell'attacco contro i lunghi, tuttavia, il playground insegna la classica tecnica “ad arcobaleno”, ossia il tiro – lob, che oltrepassa in altezza le mani protese dei lunghi avversari. E' una tecnica che fa tremare gli allenatori per la sua difficoltà  e per il rischio, in quanto presuppone una forzatura al tiro di un piccolo contro un lungo, che un allenatore non vorrebbe mai vedere, e una mano morbidissima e sensibile, ma chi la sa utilizzare ha un'arma assai temibile che giova anche nel basket pro.

Infine, gli assist dei playground sono concepiti diversamente da quelli del gioco tecnico di squadra, tipico dei college. Il giocatore di strada non fa circolare la palla per sbilanciare le difese, in modo da trovare l'uomo libero per il tiro, ma semplicemente insiste in continue penetrazioni a canestro. Se proprio non riesce ad andare al tiro, sviluppa, diremmo “per sopravvivere”, una tecnica di “scarico” sull'uomo libero all'ultimo istante, che non ha regole tecniche, se non quella di giocare sul fattore sorpresa.

Ecco, allora, che nascono gli assist più “fantasiosi” che si siano mai visti, i passaggi “no – look”, dietro la schiena (anche questi assai rischiosi), sotto le gambe, o, addirittura, gli “scarichi” in transizione dei piccoli alle loro spalle, verso un lungo che sopraggiunge in contropiede secondario. Ancora: il basket nero di strada è un tipo di gioco che esaspera la prestazione atletica, l'elevazione in schiacciata, la forza fisica dei lunghi.

Giocatori come Darius Miles, per esempio, sono l'mblema della tendenza al gioco frontale, 1 contro 1, di una guardia, anche se piuttosto alta, da concludersi con clamorose schiacciate a canestro, mentre il bagaglio tecnico di questi mezzi lunghi è spesso carente di gioco in post, che un'ala piccola deve pure conoscere, o di tiri dalla lunga distanza.

La difesa, come si è accennato, essendo improntata ad un esaltato individualismo e ad una sfida, spesso è appannaggio dei giocatori meno dotati in attacco, che suppliscono alle carenze dei compagni che “la buttano dentro” più facilmente, ed è più fondata sul rubare la palla o colpire con clamorose stoppate che non sul senso della posizione o del raddoppio. Il rimbalzo a canestro è spesso cercato puntando tutto sulla elevazione e non sul taglia fuori individuale e di squadra.

Infine, il palleggio ed il ball – handling trovano sulla strada una scuola formidabile, probabilmente superiore a quella di qualsiasi college. Il giocatore di strada impara subito a “nascondere” la palla con il proprio corpo all'avversario, così come a palleggiare smarcandosi (si pensi al mitico “cross – over UTEP” di Tim Hardaway), in un modo che difficilmente si potrà  mai imparare al college.

In conclusione, il gioco di strada è la scuola più formidbile per gli individualisti con mezzi atletici eccezionali, che possono riproporre le loro potenzialità  nei pro solo quando la squadra gli “alleggerisce” un lato del campo di gioco in attacco, mentre la tecnica del college rimane insuperabile nel gioco di squadra, sia difensivo che offensivo, ma, soprattutto, nella difesa tecnica, che è un'arte assai meno istintiva dell'attacco, e nel tiro da fuori, in cui esitono vere e proprie scuole, capaci di trasformare un mediocre tiratore in un cecchino.

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