New York: The Cage

The Cage è un pezzo di storia del basket newyorkese…

New York è una città  che ha tutto; fare una lista delle cose da fare è impossibile, tanto si viene sommersi dalla maestosità  della City una volta che ci si trova al punto che ogni cosa pianificata in precedenza viene quasi dimenticata a contatto con il presente e ci si sente pervasi da un composito di stupore e sgomento: sarò strano io, ma la prima cosa che mi viene in mente, in fondo l'unica per la quale sia andato a New York, non è tuffarmi nello shopping sfrenato della 5th Avenue o nelle luci sfavillanti di Time Square, né tantomeno recarmi (beata ignoranza") in uno dei tanti musei, bensì di andare un po' più a sud di Manhattan, precisamente sulla 6th Av. all'angolo creato tra 3rd Street e 4th Street (così si chiamano le strade che tagliano in modo latitudinale Manhattan, quelle che la tagliano longitudinalmente sono invece quelle principali e sono dette Avenue).

Esco in strada con indosso un completino Jordan ed un pallone sotto il braccio, tentando senza troppo successo di mascherarmi da uno del luogo, e mi immetto nella subway prendendo la linea B in direzione Downtown per scendere alla fermata West 4th Street, prendere l'uscita di sinistra e trovarmi ad un passo dalla rete metallica che segna in confine tra la New York cittadina e la New York di strada, che ricopre in meno di 160 metri quadrati secoli di leggende della Pallacanestro.

Mi attacco alla rete, insieme con altre decine di persone armate di macchina fotografica prima di trovare il coraggio di entrare e calcare il cemento del campo che fu di Lloyd "Swee' Pee'" Daniels ed Earl "The Goat"Manigault, di Lew Alcindor (alias Kareem Abdul Jabbar), e di Joe Hammond, di Rafaer "Skip to my Lou" Alston e di Jamal Tinsley; perché tutti, anche chi abitava nel Queens e solitamente esaltava la folla con le sue giocate nel Lost Battalion (solo per citarne alcuni Lamar Odom, Kenny Anderson e Ron Artest) o chi durante la settimana giocava ad Harlem nel cemento verde e rosso del Rucker Park come Earl "Black Jesus" Monroe e Doctor J, il sabato si muovevano in massa con la metropolitana per onorare il Sabato di The Cage, giorno sacro per i Baller Newyorkesi almeno quanto la domenica per un cattolico praticante.

Con la testa piena di pensieri che mi si accavallavano e un'emozione troppo grande per riuscire ad ordinarli, mi trovavo ancora li, appoggiato alla rete, un po' appesantito dalle enchiladas e dai nachos mangiati poco prima al "Burrito Loco", a guardare i 3-4 baller presenti sul campo (erano appena le 2 di pomeriggio") quando un uomo di colore sulla cinquantina mi rivolge la parola; superato l'impatto iniziale con il duro slang di Brooklyn (il tizio proveniva da Surf Avenue, il lungomare di Coney Island) mi racconta di quanto lui sia rispettato a Brooklyn e di quanto ami il Basket, di quanto conosca tutte le persone che contano in questo ambiente a New York e di quanto sia al corrente di tutte le "attività " di Brooklyn al punto che alla mia risposta “Italy” alla domanda di circostanza “Where are you from?” mi lancia uno sguardo torvo ed accenna una risatina sulla quale preferisco non indagare; mi dice anche di essere uno dei principali promotori di una bella attività  adibita al recupero sui campi di basket di giovani tossicodipendenti di cui però temo di non aver capito il nome, per poi conquistarmi definitivamente dicendo che il Basket gli aveva, per motivi che mi sfuggono, rovinato la vita, ma che avrebbe rifatto tutti gli errori del passato perché senza il basket non avrebbe voluto vivere.

Difficile sapere esattamente quanta sia in queste storie la percentuale di verità  e finzione fatto sta che decido di sorvolare il problema non badandoci, scherzando con lui e apprezzando sinceramente le sue parole, pensando che in fondo socializzare con una persona del posto non avrebbe fatto che favorire il mio inserimento in un contesto così differente da quello cui ero abituato.

I racconti del misterioso uomo da Coney island spaziano da Stephon Marbury, a cui dice di aver insegnato il suo terribile Jump Shot nei playground adiacenti alla celebre Whonder Wheel, alla sua grande amicizia con il regista Spike Lee (cresciuto a Bedford-Stuyvesant, sobborgo malfamato di Brooklyn) che gli aveva permesso di fare una comparsa in Do the Right Thing (1989) e He Got Game(1998).

Parliamo del più del più e del meno, tra le varie cose mi consiglia anche dei ristoranti italiani senza notare però che sul finire dei discorsi relativi alla cucina la mia attenzione era stata immediatamente catapultata all'interno della rete da un ragazzo di colore di circa 190 cm. con indosso una felpa di Syracuse University (il College portato al titolo NCAA da Carmelo Anthony nel 2003) che con estrema nonchalance aveva appena schiacciato la palla nel ferro a due mani con un mezzo giro in aria dopo essersela alzata sul tabellone, imitando la schiacciata resa famosa qualche anno prima da Vince Carter, per poi riscendere a terra senza alcun urlo di circostanza e guardare le persone presenti come a dire: "lo so, lo so".

Esaltato e sconcertato allo stesso tempo da questa giocata spettacolare decido che era giunto il momento di entrare in campo, ed una volta varcata la soglia del campo non inizio neanche a fare qualche tiro di circostanza con il mio pallone che mi chiedono di fare il "quarto" in un improvvisato due contro due; sul cemento non si alza la palla a due, la palla si affida al tiro da tre punti e come consuetudine per i Baller della City si concede il tiro all'ospite, che in tutto ciò mi ero quasi dimenticato di essere io.

Prendo la palla e tiro, solo rete.
Si comincia: palla mia.

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