Se De Coubertin arriva ultimo

Kobe Bryant a 360° con i giornalisti: un esempio dell'importanza che lo sport ha raggiunto nel mondo

E' una domanda epocale quella che gli appassionati pongono ai protagonisti del mondo dello sport sull'onda degli scandali che stanno travolgendo diverse discipline in questi giorni: potete assicurarci che tutto, se non proprio vero, è almeno verosimile? Oppure, in nome del dio (rigorosamente con la minuscola in questo caso) denaro siete pronti a rimangiarvi ogni principio basilare?

Da questo primo quesito ne deriva un altro: quando la corruzione raggiunge un livello tale da, non solo falsare la competizione sportiva, ma addirittura toglierle ogni significato?

Sapremo nei prossimi giorni come evolverà  il caso dell'arbitro, suo malgrado, più popolare dalla Nba; se Tim Donaghy è stato un isolato e avido mariuolo, come David Stern ha sottolineato di recente, o se sotto il coperchio, la pentola minaccia d'esplodere manifestando un malcostume ben più generalizzato.

Al di qua dell'oceano non stiamo meglio: la Ferrari urla allo scandalo, ed avrebbe pure ragione, per una sentenza che indica un colpevole ma non lo punisce di fatto. L'inverecondo spettacolo del Tour de France 2007 s'è concluso mostrando quanto una disciplina fra le più popolari sia oramai in un'irreversibile crisi di credibilità .
Di fronte a tutto questo l'atteggiamento del tifoso è duplice: da un lato c'è chi apre gli occhi, rendendosi conto come un bambino disilluso che il giocattolo non ha mai funzionato come pensava.

Qualcun altro invece si rintana e spera fallacemente in chi non viene investito dalle accuse, fingendo di ignorare, nel caso del ciclismo ad esempio, che c'è qualcosa di strano in un atleta che compete "al naturale" con chi si scopre essere dopato.

Per rispondere alle due domande con le quali abbiamo aperto bisogna intendersi su una definizione accettebile e condivisa di competizione sportiva: la sua unità  di misura, a parere di chi scrive, è l'ambizione dell'atleta singolo a distinguersi e primeggiare. Fin dall'antica Grecia i migliori atleti del lotto hanno goduto di privilegi che rendevano appettibile la pratica d'una disciplina sportiva in caso d'affermazione.

Era ancora così quando Pierre De Coubertin, agli albori dei giochi olimpici moderni, provò a definire i principi ispiratori della sua "creatura"; inutile dire quanto, con quei principi, De Coubertin sia arrivato inesorabilmente ultimo.
La pratica sportiva su scala mondiale cambia irrimediabilmente quando viene riconosciuto l'enorme seguito che i grandi protagonisti dello sport hanno su un mondo che nel frattempo diventa sempre più piccolo in termini di distanze e in termini culturali.

Questo seguito si trasforma in una macchina da soldi inarrestabile quando l'utilizzo del marketing in campo sportivo diventa una pratica consolidata e irrinunciabile. Proprio a questo punto della storia assistiamo al paradosso: la torta dei ricavi e dei guadagni di allarga enormemente, i protagonisti si fanno di gran lunga più aggressivi di prima per accapparrarsi la fetta più grande. Smentendo quindi la ben nota metafora degli economisti che lavorano per allargare la torta e far contenti tutti quanti.

A Donaghy spettavano solo le briciole della torta Nba, la sua colpa è stata quella di cercarne almeno una fetta intera con sistemi illeciti.
E' evidente che la corruzione, laddove c'è stata, s'è sviluppata in sistemi apparentemente molto diversi fra loro per ispirazione e mezzi.

Negli Stati Uniti, in ossequio ad un isolazionismo geografico ma anche culturale, s'è sviluppato un sistema, che potremmo definire egualitario, in cui tutte le squadre che fanno parte d'una lega partono, almeno in teoria con le stesse possibilità . I principi cardine di questa visione sono: tetto degli ingaggi agli atleti calcolato sulla percentuale dei ricavi, intransigenza sui requisiti minima di stabilità  economica richiesti alle franchigie che si dividono in parti uguali i ricavi di diritti tv e merchandising, redistribuzione del talento sportivo per mezzo d'un meccanismo che ogni anno "premia" chi è più scarso. Per quest'ultimo aspetto è fondamentale la presenza d'un tessuto scolastico che incentivi e sviluppi la pratica sportiva come avviene negli USA.

In Europa e nel sud America, per precise ragioni storiche e economiche, il mondo dello sport s'è dato una fisionomia diversa: poche squadre in ogni stato hanno una reale possibilità  di vincere costantemente, realtà  più piccole competono per traguardi inferiori autofinanziandosi anche con la cessione periodica dei loro migliori giocatori alle squadre di prima fascia. In paesi come l'Italia, e come la Spagna, è impensabile trovare 15-20 proprietari con le stesse possibilità  economiche: un esperimento in stile Nba sarebbe impossibile in un singolo paese dove non si può trovare "un vestito" adatto al tempo stesso alla Juve e al Catania, all'Olimpia Milano e a Capo d'Orlando.

Il sistema americano nega del tutto il valore del diritto sportivo: Capo d'Orlando, tanto per fare un esempio, cioè un mercato ristretto, non può in alcun modo guadagnarsi sul campo la possibilità  di far parte del club delle grandi. Per entrarvi dovrà  fornire garanzie economiche ad un meccanismo che poi si occuperà  della sua prosperità  finchè sarà  nell'interesse comune.
A ben guardare un anello di congiunzione fra l'America e l'Europa potrebbe essere trovato nei tornei come la Champions League e l'Eurolega: a quest'ultimi partecipano ogni anno una serie di squadre dell'elite continentale, sempre le stesse, assieme a una lista di compagini di seconda fascia che non incidono più di tanto sul "fatto sportivo".

Ad una visione più attenta le somiglianze risultano evidenti: le leghe americane sfruttano al massimo le loro squadre attraverso stagioni regolari interminabili in cui ogni singola partita è sfruttata commecialmente. In Europa è stato limitato al massimo, andando contro al gusto degli appassionati, il ruolo dell'imprevisto sportivo: i gironi iniziali assicurano più partite da trasmettere, minori rischi per le grandi che, salvo sfracelli, si ritrovano regolarmente a marzo per competere per i "soldi che contano". Così illustrato, il concetto appare più chiaro.

Questo gigantismo in termini di partite cos'ha portato al tifoso europeo e cos'ha sempre dato all'appassionato americano? Assolutamente nulla se ne facciamo un fatto di qualità ; il merito statunitense è quel di aver messo la quantità  a disposizione di tanti, con le partite trasmesse in diretta nazionale in chiaro che in Italia sono rimaste un'utopia. Gianni Brera rimpiangerebbe l'epoca in cui Inter - Milan si giocava due volte all'anno, quindi era un evento comunque; ora l'evento viene pompato dai media che devono capitalizzare l'investimento fatto per trasmettere la partita: ogni incontro è la sfida ultima, in attesa di quella successiva. In ogni campionato con i playoffs, possiamo far finta di niente, ma la regular season è un lungo preliminare in attesa delle sfide che contano.

Da questo gigantismo deriva un'enorme possibilità  di barare se non addirittura la necessità  di farlo: come fa un atleta professionista, pur gestendosi, ad assicurare la partecipazione a 50 gare all'anno? E così impensabile che qualcuno in presenza di competizioni poco interessanti, o nelle fasi meno interessanti di esse, provi a trarne ulteriore vantaggio personale, in barba alle regole?

La risposta è evidente, al di là  delle naturali considerazioni di ordine etico. Alcuni giocatori di calcio italiani proprio in questi giorni hanno scelto di patteggiare pene miti: scommettevano, si scoiprì, su partite sulle quali non avrebbero dovuto scommettere; ogni anno ci si stupisce, nei finali di campionato, per risultati che sportivamente non stanno nè in cielo né in terra; eppure si va avanti, fingendo di crederci o stigmatizzando quant'avviene.

Man mano che la torta si ingrossa, tutti sono più aggressivi nel dividersela.

Rimane da rispondere alla seconda domanda d'apertura: peccato che per essa non esiste una vera e propria risposta. Il gusto asprigno ed amarognolo di certe "recite sportive" oramai standardizzate potrebbe far rispondere di no.

Lo sport però non vive solo di risultati, numeri, uomini o regole: c'è un fascino indiscusso ed indiscutibile che pervade in chi con una palla, in bicicletta o su una pista ovale, sa creare qualcosa che ogni volta ci sorprende e ci fa emozionare.
Chi scrive, all'età  di 13 anni rimase affascinato dalla "volata" di Ben Johnson nei 100 metri di Seoul, salvo poi scoprire che tutto era frutto di irregolarità . L'emozione però era già  stata vissuta e, di per sé, costituì, una forza più grande rispetto alla delusione del dopo. Il gol di Maradona che dribla 5 avversari inglesi più il portiere, l'istante di perfezione in cui Jordan si distanzia da Russel e vince il sesto titolo.

E' in virtù di queste situazioni, sempre più rare per la verità , che ogni volta siamo disposti a chiudere un occhio; è per questo motivo che pur essendo arrivato ultimo De Coubertin, ancora siamo pronti a credere a quanto vediamo.

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