La permanenza a Minneapolis del Bigliettone forse sta volgendo al termine…
Karl Malone, Charles Barkley, Kevin Garnett. Vi propongo un giochino facile facile: cosa hanno in comune questi tre nomi straordinari?
Probabilmente i buonisti risponderanno che sono tra le cinque migliori power forward della storia del gioco, tre sicuri Hall of Famer, tre giocatori che ci hanno fatto, e nel caso di Garnett, continuano a farci sognare ogni volta che scendono sui parquet d'America.
Al contrario, i maligni, e non credo siano pochi, risponderanno che questi tre grandi campioni, migliaia di punti segnati in carriera, centinaia di partite di playoffs disputate, statistiche da capogiro, milioni di fans che indossano le loro mitiche "replicas", messi insieme non portano al dito nemmeno un anello di campione NBA.
Naturalmente, dubito che ci sia qualcuno in grado di criticare dal punto di vista dell'impegno nessuno di questi straordinari atleti, o negare il fatto che siano dei fenomeni al pari di giocatori che di campionati ne hanno vinti tanti; ma la storia, come si dice, la fanno i vincitori, e mentre per Karl e Sir Charles le speranze sono ormai svanite, Kevin Garnett, 11 anni di NBA e una finale di conference persa in 6 partite con i Lakers nel 2004 come miglior traguardo in carriera, può ancora farcela a lasciarsi alle spalle lo scomodo club popolato dai vari Stockton, Ewing, Miller, oltre ai già citati Barkley e Malone.
Ciò che differenzia Barkley e Malone da Garnett, tuttavia, è il tipo di società che hanno avuto la fortuna di schierare questi campioni tra le loro fila: Utah e Phoenix sono squadre che negli anni '90, con saggi scambi e scelte al draft hanno saputo costruire intorno ai loro "franchise player" dei cast di supporto di eccellente qualità (come scordare il Kevin Johnson delle finali'93 contro i Bulls, o lo Stockton che con Malone ha creato uno dei più micidiali pick and roll della storia di questo sport?).
Purtroppo, non possiamo dire la stessa cosa di Minnesota; basta analizzare un dato per capire di cosa parliamo: dal 2002 c'è un solo giocatore che insieme a Garnett è rimasto a Minneapolis, e risponde al nome di Troy Hudson.
In settimana, KG, dopo l'amara sconfitta di Portland arrivata negli ultimi istanti di gioco grazie ad un tiro da fuori di Zach Randolph, ha rilasciato dichiarazioni pesanti che hanno un obiettivo ben preciso, il GM Kevin McHale: "Continuo a ripetervelo, questa squadra non ha chimica" – ha detto a Steve Aschburner del Minneapolis STAR TRIBUNE - "non c'è complicità , non c'è identità . Siamo ancora in cerca del nostro spirito. Abbiamo una squadra nuova di zecca. Comunque la mettiamo, questa è una squadra che ha fatto tabula rasa" - ed ancora - "non sono mai quello che" si lamenta delle cose, ma è importante tenere insieme una squadra per creare quella chimica che ci serve. Questa è probabilmente la cosa più importante, bisogna tenere le squadre insieme. Ogni estate, vedo ragazzi andare e venire, ma bisogna tenerne cinque o sei attorno ai quali costruire qualcosa"
Il messaggio è chiaro, come è chiaro che i rapporti tra giocatore e società non sono più idilliaci. Garnett ama Minneapolis e la sua gente, farebbe qualsiasi cosa per portare questa squadra al titolo, ma inizia a dubitare delle mosse compiute dal front office.
Il termine per effettuare scambi di mercato è il 23 febbraio, e molte voci sono pronte a scommettere che Minnesota non resterà immutata nel suo roster per quella scadenza, voci che vorrebbero in procinto di partire proprio quell'Hudson unico rimasto da almeno quattro anni al fianco di KG, e che nelle ultime 7 partite per due volte non è sceso in campo per scelta tecnica.
Il giocatore non ha voluto creare polemiche, e la controversa ma fondamentale vittoria a Phoenix di lunedì sembra aver momentaneamente messo da parte le critiche, ma per coach Dwane Casey il lavoro non sarà semplice. Aritmeticamente è difficile sostituire due giocatori con quattro, perché inevitabilmente i nuovi arrivati vanno a togliere minuti a giocatori già presenti nel roster. Se il cambio tra Sczerbiak e Ricky Davis è abbastanza naturale, Marcus Banks, Marc Blount e Justin Reed non possono suddividersi i minuti di Olowokandi, che tra l'altro negli ultimi tempi non era molto utilizzato dal coach.
Due giocatori in particolare hanno perso spazio in squadra: Frahm e Dupree, che non avevano demeritato nella prima parte di stagione. Questi continui aggiustamenti rendono Garnett inquieto ed incerto sulle possibilità della sua squadra. Due partenze storiche sono alla base dei dispiaceri del n. 21: quella di Marbury, presa come un tradimento dall'ala grande, e quella di Cassell, accettata a malincuore in nome dell'anagrafe a vantaggio del nuovo arrivato Jaric, che sta deludendo.
Il fatto che Garnett sia arrivato nell'NBA direttamente dall'high school probabilmente ce lo fa immaginare ancora come un giovane giocatore a cui il futuro appartiene, ma in realtà , non è più così: le stagioni giocate sono ben 11, e gli anni il 19 maggio di quest'anno saranno 30, ancora pochi per parlare di calo fisiologico (andate a dirlo a Marion, che, goaltending o no, si è visto questo airone di 2 metri e 13 decollare per cancellare il suo tiro allo scadere) ma molti per pensare che possa continuare a giocare nella speranza che le continue ricostruzioni possano portarlo all'ambito Graal della palla a spicchi.
A voler essere ottimisti, qualche potenziale passo in avanti a Phoenix si è visto, considerando che Ricky Davis, senza essere più un subalterno di Paul Pierce come a Boston, si sente più coinvolto, e la panchina si è sensibilmente allungata, ma di chance per il titolo non se ne parla nemmeno. Fa pensare il fatto che gli unici due personaggi espressisi finora in maniera positiva riguardo al recente scambio tra Celtics e T-Wolves siano proprio i due GM ex compagni di squadra Kevin McHale e Danny Ainge.
Entrambi occupano posizioni scomode, il primo accusato per essersi fatto sfuggire un grande coach come Flip Saunders, che ha migliorato una squadra già ottima come Detroit, e il secondo impegnato costantemente a fare e disfare, a costruire e distruggere senza mai dare l'impressione di avere un progetto ben definito in mente.
In tutto questo vortice di scambi, scelte, contratti, allenatori, resta lui, il grande Kevin (e state sicuri che a Minnesota se anteponete l'aggettivo grande al nome che giocatore e GM hanno in comune nessuno avrà dubbi sulla persona della quale state parlando), giocatore amato come pochi altri da pubblico, addetti ai lavori (David Stern lo considera una delle immagini più positive dell'attuale NBA), sponsor, compagni, davanti al bivio più importante della sua carriera: continuare a combattere, a sperare, a credere nel progetto dei Wolves, o andarsene a cercare il titolo da un'altra parte.
Nessuno potrebbe accusarlo di tradimento in questo secondo caso, perché in molti al posto suo avrebbero abbandonato la nave da tempo, ed invece lui è rimasto, come solo i veri capitani sanno fare, ma Garnett, grande altruista in campo e fuori, avrebbe tutto il diritto di fare ciò che è più giusto per la sua carriera. I punti della questione sono due: la fattibilità di una trade che lo coinvolga, e la reale voglia di Kevin di lasciare Minneapolis e il suo pubblico.
Il secondo punto non lascia molti dubbi, Kevin non se ne andrà mai a meno che il rapporto con McHale non si deteriori in modo irreparabile, perché si identifica in modo univoco con squadra e tifosi. Il primo punto è realizzabile tanto quanto la macchina del tempo costruita da Doc Brown in "Ritorno al Futuro" per un semplice motivo: non esiste giocatore sulla faccia della terra che potrebbe rimpiazzare nei cuori dei tifosi e nelle tasche della società Kevin Garnett, non c'è Kobe, Allen I, LBJ, Tim Duncan, T-Mac o D-Wade che tenga. Uno scambio che preveda molti giocatori per il numero 21 è altrettanto inimmaginabile perché la squadra che dovrebbe acquisirlo dovrebbe dare via mezzo roster, e costringerebbe comunque Garnett ad aspettare scambi futuri per poter ambire al titolo.
Tutto ciò rende la partenza di Garnett irrealizzabile, almeno nel breve termine, quindi ciò che possiamo augurarci è che McHale riesca a trovare quel nucleo di 5-6 giocatori da tenere per qualche anno per costruire una squadra con un minimo di continuità di gioco e di spogliatoio, e ritoccare il resto del team il minimo indispensabile per accrescere la qualità della squadra; oppure che la società , piuttosto che mandar via il più grande all-around player della lega, decida di cercare un nuovo GM, il quale sappia creare un cast di supporto all'altezza di KG 21, nel caso in cui la sua pazienza nei confronti dell'ex-Celtic dovesse esaurirsi e far concretizzare nella sua mente la possibilità , al momento neanche lontanamente immaginata, di lasciare la squadra che nel 1995 ha creduto in un giovane liceale del Sud Carolina scegliendolo col numero 5 subendo una valanga di critiche.
Nel frattempo, godiamoci comunque le giocate di questo grande fenomeno, dimenticando magari per un po' che nella sua carriera ha superato solo una volta lo scoglio del primo turno di playoffs, ammiriamolo nei suoi salti prodigiosi, nella sua completezza tecnica, nel suo sorriso smagliante, in quelle grandi mani che, glielo auguriamo di tutto cuore, non resteranno nude prima che The Big Ticket metta la parola fine alla sua pur straordinaria carriera.