L'incondibile stile plastico di Scottie Pippen…
Si conclude così, diciassette anni dopo, la carriera cestistica di Scottie Pippen, da Hamburg. Solo i dettagli, dicasi un consistente taglio al suo contratto garantito con Chicago, si frappongono fra il giocatore e la proposta di inserimento nella Hall of Fame.
L’ex Portland ha fatto mente locale sull’ultima stagione, 23 partite in tutto, solo sei partenze in quintetto, sui ricorrenti problemi al ginocchio che lo hanno costretto a diverse operazioni. E ha detto basta.
Dopo 6 titoli, memorabili con i Chicago Bulls, 2 medaglie d’oro alle Olimpiadi, 7 presenze all’All Star Game e 10 nominations per il miglior quintetto difensivo. Nonché l’inclusione nei 50 migliori giocatori di ogni epoca.
Il miglior secondo violino di sempre: con questa definizione, noi tutti siamo pronti a registrarlo nei nostri files mentali.
Pippen è stato per anni la fedele spalla di Michael Jordan, un giocatore di una universalità straordinaria, in grado di segnare, di organizzare meglio di Michael il gioco della sua squadra e di intuizioni difensive al limite del soprannaturale.
Il destino ci ha messo del suo: durante le finali del ’98, sul 3-1 per i Bulls, in molti ci chiedevamo chi sarebbe stato l’Mvp. Mai come in quella finale, Scottie si era avvicinato al livello di sua maestà Jordan. Per certi versi lo aveva soverchiato con il suo gioco a 360°. Una sciagurata gara5, persa dai rossoneri, con percentuali di tiro minime, la successiva eroica prova di Michael al Delta Center, con Scottie a fare avanti e indietro dall’infermeria, ristabilì a pieno le “gerarchie”.
La seconda parte della carriera dell’ex Central Arkansas ha rafforzato questa etichetta: una sola stagione, non brillantissima, a Houston, passata a dare il pallone in area ai senatori Hakeem e Barkley, conclusa con le famose accuse di “eccessiva pinguedine” rivolte a quest’ultimo.
E poi la campagna di Portland, dove è arrivato ad un centimetro dal titolo. E’ opinione comune che, se Portland non avesse buttato via il quarto periodo di gara7 allo Staples Center, i Blazers avrebbero poi vinto il titolo con Indiana. Invece Wallace fece 1-8. Bryant mise un tiro incredibile con la mano di Pippen in faccia. E nacque la dinastia dei Lakers.
Quella sera, in sala stampa, il giocatore cercò di spiegare il disastro, con la sua voce nasale e da baritono, quasi innaturale: gli occhi persi nel vuoto, forse per nascondere la sua incredulità , di fronte a quello che aveva visto. L’ultima, reale possibilità di vincere il titolo era sfumata.
Eppure Scottie aveva dato vita all’ennesima memorabile danza difensiva: dovendosi occupare di Harper, suo ex compagno, ritenuto poco pericoloso, Pippen raddoppiò costantemente Shaq, contribuendo insieme a Sabonis a non farlo ricevere, isolandolo completamente dall’attacco gialloviola.
All’eliminazione di Portland in molti gongolarono: Scottie nella Nba si è fatto pochi amici. E non ha certo provato a mostrare il suo lato migliore. Di Charles Barkley abbiamo detto. Jerry Crause per anni fu insultato per via delle dispute contrattuali.
Figlio di una famiglia poverissima, Scottie sviluppò una reale idiosincrasia per il contratto a lungo termine che, ad inizio carriera, firmò per avere un avvenire economico sicuro. In realtà per questo, per anni fu sottopagato in maniera imbarazzante rispetto al suo reale valore. Proprio i Bulls, però, alla fine lo ricompensarono con il contratto sign&trade che gli portò 67milioni di dollari, prima di andare a Houston.
Anche nell’Oregon non mancarono parole di fuoco contro la dirigenza, colpevole secondo l’ala, di aver sacrificato Jermaine O’Neal per Shawn Kemp. Nel momento in cui le cose cominciarono ad andare male, Pippen mostrò l’altra faccia. Quella di un giocatore psicologicamente ondivago, non in grado di assumere la guida di una squadra.
Portland avrebbe avuto bisogno di leadership e carisma per instradare Rasheed Wallace. Pippen preferì un atteggiamento di sdegno progressivo. Per la cessione di Steve Smith, per il playmakin di Stoudamire. Questi atteggiamenti negativi si erano visti anche nella città del vento, nell’anno e mezzo dedicato da Jordan al baseball: tutti ricordano la sedia scaraventata in campo, con rabbia.
E lo sciopero bianco, negli ultimi secondi di una partita di playoffs contro New York. Phil Jackson aveva assegnato l’ultimo tiro, della possibile vittoria a Toni Kukoc, lo storico bersaglio delle frustrazioni di “Da Pip”.
Ci piace invece ricordarlo nelle finale del ’97 e del ’98 contro Utah: la sua interpretazione della difesa sul pick n roll, venendo come terzo uomo, rimane la cosa più incredibile che si sia vista, difensivamente negli ultimi anni.
Pippen si ferma con il secondo posto fra i marcatori dei Bulls, 15.123 punti sui 18.940 totali. Secondo per partite giocate nei playoffs con 208: solo Kareem Abdul Jabbar con 232 ha fatto meglio. Pippen è anche 23° assoluto negli assist con 6.153 e terzo rimbalzista della storia di Chicago con 5263 palloni catturati. E’ invece primo per tiri da tre segnati: 644 su 2011. Numeri, che da soli non bastano a inquadrare la completezza del giocatore, ma che ne danno un’idea.
Rimane l’emozione per aver visto sul campo un airone meraviglioso, in grado di fare tutto e di esprimere un’increbibile eleganza in ogni sua azione.
La sua immagine più bella: gara5 a Salt Lake City nel ’97. Bulls in difficoltà sotto in doppia cifra e con Jordan debilitato. Pippen parte in palleggio da sinistra verso il centro, batte il difensore diretto e piazza una violenta “tomawack dunk”, schiacciata ad una mano, la destra, sull’aiuto di Karl Malone.
Ciao Scottie, grazie di tutto.