Terry Porter rilassato in regular season
Due categorie e uno spartiacque netto come l'attitudine: per descrivere i coach NBA bastano due recinti. Distinti, inconfondibili, marcati e invalicabili: da una parte ci stanno i filosofi, i teorici, gli studiosi maniaci, i malati terminali di morbo di Naismith, gli incurabili pervertiti sognatori, pensatori di basket quindici giorni la settimana. Nell'altro recinto pascolano più tranquillamente gli amanti dell'uomo innanzitutto, davanti all'atleta, davanti al risultato: prima il gruppo, dentro e fuori parquet; prima il collettivo, idealisti di un basket che passa dal sorriso, dall'armonia, dall'ordine, dal sudore come valore, dal sacrificio dell'io per il noi.
Un po' offensivamente, diciamocelo, questa secondo modo di vivere la giacca e cravatta da panchina è usualmente chiamato "player's coach".
Terry Porter non sta né di qua, né di là ; il terzo modo di essere coach ha dimostrato di essere qualcosa di diverso ed ha passato la sua prima stagione da capo-allenatore a cavalcioni sul recinto di cui sopra, un piede da una parte e uno dall'altra: ha guardato per un anno e ha capito in fretta. Quarantuno vittorie e quarantuno sconfitte il giudizio del campo.
La stagione di Terry Porter si commenta da sola. Che ne dica lui stesso, il materiale a disposizione era talmente scarso che anche chi aveva scherzato i Bucks già nel giro di prova ed è stato clamorosamente smentito, non avrebbe potuto dire altro. Porter e i suoi ragazzi sono riusciti nell'impossibile, anche meglio di Sloan in casa Jazz, facendo debite e ovvie proporzioni.
Sul groppone dell'ex stella dei Blazers, l'imponente figura di mister George Karl; discusso, odiato, contestato ma sempre e comunque vincente coach dei Bucks per cinque stagioni consecutive, di cui quattro con annessa vacanza posticipata causa playoff.
Difficile fare meglio senza nessuno in grado di "spostare", senza un centro, senza un play dominante, senza un'ala piccola (Mason è un volontario del ruolo) e con scarti degli scarti delle riserve. Terry, coadiuvato da uno staff dirigenziale come pochi altri – Larry Harris è un nome da tenere d'occhio per parecchi anni a venire - ha costruito la stagione sul personaggio che per 17 anni ha scorrazzato con le maglie di Portland, Minnesota, Miami e San Antonio su tutti i legni incrociati made in NBA.
Diciassette stagioni e sedici partecipazioni ai playoff, diciassette stagioni e quattordici regular season in positivo, il decimo posto nella classifica degli assist di tutti i tempi, due presenze nelle Finali, l'iscrizione alla Hall of fame" Basta?
No. Porter è di Milwaukee come i 17.000 ospiti medi del Bradley Center, è stato allenato in carriera da Jack Ramsay, Rick Adelman, Pat Riley e Gregg Popovich. Proprio sotto Adelman, in qualità di assistant coach, ha ottenuto il rispetto di tutti i Kings in campo e fuori, brillantemente coadiuvato da 59 vittorie a referto.
Sedici giorni, ci hanno impiegato i Bucks a trovare il sostituto di Karl, quest'estate, e hanno scelto un uomo orgoglioso del modo in cui i suoi uomini scendono in campo ogni sera, che sostiene l'operato di tutti i ragazzi che giocano per lui e che pubblicamente dichiara che diventeranno "qualcuno". Che allena nello stesso modo in cui giocava: concentrato ogni secondo, preciso, letale, geometrico fino all'assurdo, essenziale e tecnico. Un purista che traduce il successo di quest'anno nell'asprezza di una sorpresa che non ci sarà più la prossima stagione.
Concreto come un ego trasparente, che scivola sulla pelle dei vari Mason, Redd, Smith e Ford e che senza rumore entra nelle vene di chiunque, insegnando senza parole cose non scritte e non dette. Scegliendo Porter, Milwaukee ha scelto un esempio prima ancora di un coach, ha scommesso su di un attitudine prima che su di un curriculum: ha curato l'aspetto umano del gioco, insieme alla rigidità del rispetto per esso, scegliendo l'uomo che più di ogni altro sulla piazza, con rispetto e concretezza ha costruito una vita di successi.
Complimenti a Porter, quindi, di cuore. Fino a che punto, però, potremo ancora farglieli, i complimenti?
Fino alla soglia dell'eccellenza. I "player's coach" non vincono i titoli NBA, almeno fino a prova contraria. I Jackson, vincono, non i Porter. Quelli di qua dallo steccato hanno due scelte: vittoria suprema o supplizio universale, genio compreso o pazzo scriteriato, non si può prescindere, però, dall'azzardo di un malato del gioco come solo un Riley può essere. Porter, no. Non ancora, almeno.
Quella stessa immagine che sta facendo di Terry un grande coach, deve arricchirsi pian piano, è obbligata a modificarsi con quell'esperienza, quella sagacia tecnica che nessun "player's coach" può prescindere a priori senza escludere annessi anelli al dito.
L'augurio è di quelli veri, perché T.P. ha portato giovani volenterosi e veterani insoddisfatti a diversi passi oltre il lecito immaginario. L'augurio è quello di inaugurare una nuova specie di coach: umanità e concretezza fuse in un unico personaggio.
See ya' by In The Zone
Postilla: se fossi un coach? Io? Player's coach, of course.
Andrea De Beni