L’America dell’immediato secondo dopoguerra non parlava d’altro che dell’unione tra il campione e la diva di Hollywood.
Continua il viaggio alla ricerca dei migliori sportivi italo-americani.
9. FRANCO HARRIS
Running back dei mitici Pittsburgh Steelers degli anni ’70, vinse 4 Super Bowl con quella che è per antonomasia “The 70’s team”. Era la strada della difesa impenetrabile, nota come “The Steel Curtain”, la cortina d’acciaio.
Quando si ritirò era il terzo miglior running back della storia, dietro solo a due leggende come Jim Brown e Walter Payton. Aveva un fisico poderoso a dispetto di una non strepitosa altezza ma riusciva a infilarsi nelle difesa con un mix unico di potenza e agilità .
Il suo nome è legato ad una delle singole azioni più famose della storia del football. In una partita di playoff nella sua stagione da rookie mancavano soltanto 22 secondi alla fine della partita e i Raiders erano in vantaggio per 7 a 6. Ultima possibilità sul quarto down, in caso contrario l’alternativa era uscire fuori dai playoff.
Il QB degli Steelers, Terry Bradshaw, lanciò per John Fuqua, che però, appena ricevuto il pallone fu colpito violentemente da un difensore, Jack Tatum, per cui perse il controllo dell’ovale. Franco Harris era lì vicino, raccolse il fumble e volò in end zone vincendo la qualificazione al turno successivo.
Era stata appena andata in scena “The Immaculate Reception”. Da allora una sezione dello stadio sarà in suo onore chiamata “Franco’s Italian Army”.
8. DAN MARINO
Quarterback dei Miami Dolphins il cui braccio ha riscritto tutti i record per i passaggi della NFL. E’ stato semplicemente “The NFL’s Most Prolific Passer”. Fiero di sé e del proprio potenziale, a volte un tantino arrogante, poteva anche non entrarci affatto nella NFL perché su di lui pesavano delle voci (mai confermate) di un suo uso di droghe e perché nella sua stagione da senior al college aveva lanciato più intercetti che TD pass.
Una volta arrivato a Miami ha però semplicemente strabiliato il mondo con i suoi passaggi lunghi e potenti, anche se su di lui graverà per sempre la pecca di non aver mai vinto un Super Bowl. Poteva riuscirci nel 1984 ma Jerry Rice e i 49ers avevano lo stesso pensiero. Ah, il 1984…C’è chi dice che mai nessun altro QB riuscirà mai a ripetere una stagione così. Tra i record : 5084 yards su passaggio e 48 TD pass.
7. RICK PITINO
Coach di basket ora a Louisville. Fin dai tempi di Boston University e poi con Providence e Kentucky ha rivoluzionato il modo di giocare una partita di basket. Il suo credo è fatto di pressing costante a tutto campo e per tutta la durata la partita, contropiede, tiri da tre, rotazione di tutta la panchina e disciplina di squadra molto rigida. Ha allenato con fortune alterne anche nella NBA, con i New York Knicks e i Boston Celtics.
Nella Mela, sua città natale, entusiasmò il pubblico, fece crescere giocatori giovani come Patrick Ewing e Charles Oakley ma non vinse nulla. A Boston invece ha avuto la cattiva idea di accollarsi anche le responsabilità di GM e la sua permanenza a Beantown è stato un fallimento totale. La sua carriera sarà quindi ricordata soprattutto per il titolo NCAA con Kentucky nel 1996.
L’anno dopo perse con Arizona ai supplementari ma senza la sua stella Derek Anderson, infortunato al ginocchio. La sua vera forza è stato però il reclutamento. Era un vero maestro e i con i giocatori faceva valere anche le sua grandi capacità di comunicatore di un’etica vincente.
Solo da Kentucky ha portato nella NBA questi nomi : Derek Anderson, Tony Delk, Jamaal Magloire, Walter McCarty, Nazr Mohammed, Scott Padgett, Mark Pope e Antoine Walker. Un grande insegnante, un uomo orgoglioso, tutto d’un pezzo. Leggete qualche suo libro e anche voi vorrete giocate per la sua squadra.
6. DICK VITALE
Commentatore di college basket, è il più noto e divertente tra tutti i giornalisti sportivi americani. Le sue telecronache sono un vero spasso e vanno a ritmo di “”Awesome, baby!”, “Get a TO, baby!”, “PTPer” (prime-time player), “M&Mer” (un mismatch), “Rolls Roycer” (una superstar), “diaper dandy” (star da freshman), “All-Windex Performer” (feroce rimbalzista); o “Maalox time” (i minuti finali della partita punto a punto).
Si agita, urla, non sta mai fermo. E’ amato e rispettato da tutti e per ogni giocatore NCAA è un onore avere una sua recensione positiva. Oh, nascere col quel nome forse lo ha costretto a vivere la vita alla leggera. Se non sapete il significato di “Dick” sfogliate il vocabolario ma non il vostro “Oxford”.
Io vi ricorderò un’immortale battuta di Whoopi Goldberg al Late Show : “Pensateci un attimo, noi americani siamo governati da uno che si chiama Bush (erbaccia) e da un altro che si chiama Dick. Stiamo messi bene !”.
Il nostro Dick, la Bibbia del college basket, ha visto crescere sotto il suo entusiasmo irresistibile tutti i grandi nomi della NBA. Oh, tranne Lebron James, Kobe Bryant, Tracy McGrady, Jermaine O’Neal e Kevin Garnett certo. Quelli erano ragazzi difficili da imitare e hanno preferito saltare uno scalino.
Ah, le imitazioni…Cosa c’è di più americano del concorso in cui mezz’America cerca di rassomigliagli fisicamente ? Mi cedesse comunque solo un millesimo del suo entusiasmo (come mostra in “He got game”) potrei addirittura ridermela se un giorno la NBA non esistesse più.
5. JAKE LA MOTTA
Pugili dei pesi medi degli anni ’50, eterno rivale di un altro grande del pugilato, Sugar Ray Robinson. Fu il primo a fermare la sua invincibilità ma nel giorno di San Valentino del 1951 fu sconfitto da lui per un KO tecnico.
Il suo orgoglio però non ci stava a perdere e gridò nelle orecchie di Robinson queste parole : “You couldn’t drop me! You never dropped me!”, “Non mi puoi battere, non mi hai mai battuto”.
La sua carriera finì però più che per Robinson per le accuse dell’FBI di collusioni con la mafia. Eglì stesso dichiarò di aver pilotato a suo svantaggio un match contro Billy Fox per aver l’opportunità di competere per il titolo contro Marcel Cerdan.
Divenne allora un attore o un aspirante tale e comunque si ringrazi il cielo che il protagonista del film sulla sua vita, Raging Bull di Martin Scorsese, sia DeNiro e non proprio lui. La faccia di DeNiro, “incazzato” fino all’eccesso con la moglie perché geloso della relazione tra lei e il fratello manager, è arte finissima, di prim’ordine.
4. ROCKY MARCIANO
Pugile degli anni ’50, vita di fatiche e di vittorie. Piccola premessa : non ho mai visto un ragazzo più determinato di Rocco Francio Marchegiano. Voleva diventare un giocatore di baseball e ci è riuscito in una squadra delle Minors associata ai Chicago Cubs, voleva essere il migliori di tutti e ci è riuscito nella boxe.
Ha un record, difficile da battere, di 49 vittorie consecutive come peso massimo, compreso un match storico contro il grande Joe Louis, “The Brown Bomber”, l’orgoglio nero che significò più di tutti la speranza di rivincita afro-americana nell’America degli anni ruggenti (il periodo tra le due guerre).
Nel 1951 Rocky lo mise KO e divenne il nuovo re della boxe. Ma a lui piaceva il baseball, magari anche il football (un giorno segnò un TD dopo un ritorno di 60 yards e lo ha sempre ricordato come uno dei suoi momenti più belli) e gli aerei (morirà su uno di questi velivoli).
Nato a Brockton, MA, crebbe vicino a luogo chiamato “The Bush”, la sezione irlandese della città , dove ben presto conobbero la forza e la tenacia di questo “italian kid” che da bambino quasi era morto per una brutta polmonite. Fece molti lavoretti : il camionista con il padre Pierino, l’operaio in una fabbrica di scarpe, lo spazzino e grazie ai tanti biscottini della mamma riuscì ad essere il miglior scaricatore della città .
Anche la sua carriera professionistica fu una grande avventura e non ebbe sempre e solo gioie. Fu accusato per esempio di aver fatto uso di droghe e ancora di essere in stretti rapporti con qualche mafioso del New England.
Ma lui vinceva e la sua storia tutta americana emozionava. Oggi infatti si commemora il ragazzino testardo con alcuni dei più bei francobolli dell’US Postal Service e ovviamente con quel grande film ispirato alla sua storia : Rocy Balboa, “lo Stallone italiano”.
3. JOE MONTANA
Quarterback dei San Francisco 49ers degli anni ’80, per molti non solo il miglior QB della storia ma addirittura il miglior giocatore di football di sempre. Con i suoi fidati ricevitori Dwight Clark e Jerry Rice ha vinto quattro Super Bowl (82, 85 e il back to back 89 – 90) dei quali di ben tre è stato l’indiscusso MVP.
Con Dan Marino ha messo in piedi uno show che forse è di poco inferiore a quello, contemporaneo, di un’altra grande rivalità , quella NBA tra Magic Johnson e Larry Bird. A differenza di Marino però Joe vinceva e lo faceva con una classe e con una personalità mai più eguagliate su un campo da football.
Il suo soprannome era un vero e proprio manifesto della sua arte più sopraffina, “Comeback kid” e la facilità tutta sua e di nessun altro di vincere le partite in rimonta, quando la partita conta pochi minuti o forse meno sul suo cronometro. Oh, se “The drive” appartiene a John Elway, qui ci andiamo perlomeno vicino.
Siamo al Super Bowl XXIII, i Cincinnati Bengals (sì proprio loro, ecco perché si dice dei Clippers…) sono in vantaggio 16 a 13 ma devono difendersi da un ultimo attacco dalle 8 yard dei Niners. Mancano 3 minuti e dieci secondi alla fine della partita. “Joe Cool” non fa una piega e si mangia 92 yards con 11 giochi per il TD della vittoria.
Joe, che ha poi finito la sua carriera a Kansas City nel 1994. è stato anche l’ispiratore del nome del personaggio di Al Pacino in “Scarface”. Oliver Stone ha scelto proprio lui perché in parte tifoso e in parte bisognoso di un nome da vincente. Joe lo è stato davvero.
2. VINCE LOMBARDI
Grande allenatore dei Green Bay Packers dal 1959 al 1967, con i quali vinse i primi due Super Bowl della storia. In tutta la sua carriera non ha mai compilato una stagione con record negativo e questo è solo uno dei motivi per cui è considerato da molti il miglior allenatore del ‘900. Non del football, di tutti gli sport.
La sua santissima trinità prevedeva Dio, la famiglia e i Packers. Ragazzo di Brooklyn, si allontanò dalla vocazione di diventare un prete cattolico perché a Fordham, l’università del Bronx che è stata anche di Denzel Washington e del napoletano Acquaviva, aveva visto giocare a football e se ne era innamorato.
A Green Bay vinse tutto, inventò schemi offensivi (la celebre “Packer Sweep” prevede un gioco per il RB che sfrutta al massimo i bloccaggi degli uomini di linea) e frasi da motivatore consumato. Non è la sua ma andatelo a spiegare agli Americani, il nome di Vince e “Vincere non è tutto, è l’unica cosa” andranno sempre insieme.
Ce ne sono delle altre : “Perdere è peggio della morte, perché con la sconfitta poi devi viverci”, “Nei grandi tentativi è glorioso persino fallire”, “Lo chiamano allenare ma questo che faccio è insegnare ; infatti mostro loro le ragioni” e “Il football è placcare e bloccare, nient’altro ; se fai bene queste due cose vinci”.
Frasi che ti danno la carica per vincere, non solo nel football. Ovunque. A tal proposito, siamo nel 1968, il repubblicano Richard Nixon se ne vuole servire per arrivare alla Casa Bianca.
L’approccio con Lombardi lo rivela preparato : “Così credi in Dio, volevi diventare prete, credi nella famiglia, nel lavoro duro per raggiungere la vittoria….Perfetto ! Vorresti aggregarti a me nella campagna presidenziale ?”.Veni, vidi…Vince. “Sono democratico, anche se sembrava il contrario !”.
1. JOE DI MAGGIO
Battitore dei New York Yankees dal 1936 al 1951. Immortalato da Simon e Garfunkel come da Ernest Hemingway, Joe era un grande eroe popolare.Qualcuno arrivò a dire che “il baseball non è un gioco di statistiche, è Joe Di Maggio che gira la seconda base”. Era un simbolo di classe e gentilezza sia sul diamante che nella vita privata.
Già , la vita privata. Lasciate stare le 56 gare consecutive con almeno una valida (nel 1941), lasciate stare le 9 World Series portate a casa, lasciate stare i numeri. Quando Joe girava la mazza faceva sognare l’America perché aldilà del risultato che ne poteva derivare era troppo bello da vedere, troppo elegante.
Joe veniva da San Francisco e il padre era un umile pescatore della Baia. Nessuno si immaginava che quel ragazzino magro, timido, con i denti sporgenti, con le espressioni buffe, sarebbe diventato il marito della donna più bella del mondo, Marilyn Monroe.
Si sposarono nel 1954 quando Joe aveva ormai finito la sua carriera professionistica, ma si separarono dopo soli 9 mesi, il tempo di una gravidanza.
Fosse nato un bambino sarebbe stato “The American Child”, il piccoletto più famoso di tutta la nazione. Il bimbo non nacque ma forse quei 9 mesi generarono un amore vero, al di là di tutto il glamour da rivista che aveva fatto della coppia il passatempo nazionale.
Già , il passatempo nazionale. Oscar Levant, pianista ed attore, disse che la rottura tra loro due era la dimostrazione che nessun uomo può avere successo in due passatempi nazionali, cioè il baseball e il mondo dorato di Hollywod. Joe e Marylin però si amavano davvero e difatti avevano giù programmato il loro secondo matrimonio per l’ 8 Agosto 1962.
Marylin però fu trovata morta tre giorni prima e lasciò nel dolore “The Yankess Clipper”. Quando anch’egli morì, le sue ultime parole furono : “Finalmente potrò rivedere la mia Marilyn”.
Questi i venti atleti più forti di origine italiana. Appendete i loro nomi nella vostra cameretta come i ragazzi italiani di “Do the right thing” di Spike Lee nella pizzeria di Bed Stuy, a Brooklyn, NY. C’erano Madonna, Sofia Loren, Frank Sinatra, Al Pacino, Robert De Niro, John Travolta e anche Papa Paolo VI. Aggiunteci magari un Martin Scosese, un Francis Ford Coppola o un Sylvester Stallone e ovviamente gli sportivi di cui sopra.
Oh, e Brian Piccolo ?. A molti non dirà nulla, a meno che non si è visto il bellissimo Brian’s Song, sia esso quel 1971 o quello più recente. Racconta la storia del RB italo-americano dei Chicago Bears che trasportò la sua rabbia, la sua voglia di vincere, la sua tenacia, da un campo di football a una sala d’ospedale.
Fu ucciso da un brutto tumore, ma non penso di aver mai visto un ragazzo più combattivo e più attaccato alla vita e all’amicizia (con il nero Gale Sayers).
Oggi il “Brian Piccolo Award” premia i rookie dei Bears che si mostrano più generosi verso i compagni. Brian non era generoso prima della malattia e difatti Gale ha dovuto subire scherzi e sfottò umilianti, ma poi è cambiato e ha ammesso le proprie colpe.
E ha privilegiato l’amicizia come valore più importante della vita. Nel mio piccolo l’ho fatto anche io. La mia unione con gli sport americani è molto forte e credo sia anche ricambiata. Mi basta un TD, un HR o una slam dunk per capire che mi danno tutto quello che realmente voglio da loro.