Negli anni '80 i campioni, qui Wayne Gretzky e Jari Kurri, non avevano remore a trasferirsi a Edmonton
Mentre copriamo la trentina di chilometri che separano l'Edmonton International Airport dal centro della capitale dell'Alberta, è impossibile non pensare alla spiegazione che i giornalisti forniscono ogniqualvolta un fuoriclasse a scadenza di contratto rifiuta una ricca offerta degli Oilers e si accasa presso un'altra franchigia: nessuno vuole venire a giocare a Edmonton.
Durante l'estate di dodici mesi or sono, Marian Hossa, a fronte di due maestose offerte dei Penguins e degli Oilers, scelse Detroit perché a suo modo di vedere i Red Wings avevano maggiori possibilità di vincere la Stanley Cup (inutile ricordare com'è finita). Giorni dopo, Kevin Lowe, allora General Manager dei petrolieri, annunciò il raggiungimento di un accordo con Michael Nylander. Peccato che poco dopo il centro svedese venne presentato dai Washington Capitals e a nulla valsero le proteste della dirigenza canadese: il contratto con la banda Ovechkin venne ritenuto valido. A estate inoltrata, gli Oilers tentarono disperatamente di convincere Jaromir Jagr a restare in NHL. Niente da fare, il campione ceco si concesse alle attenzioni russe. Poche settimane fa, infine, il ribelle Dany Heatley ha fatto saltare uno scambio praticamente già confezionato tra gli Oilers e gli Ottawa Senators. Il commento degli addetti ai lavori è sempre quello: i fuoriclasse non vogliono nemmeno sentire parlare di giocare a Edmonton.
Ma che cosa avremmo trovato fra poco meno di trenta chilometri? Un posto dimenticato da Dio? Per il momento, niente di tutto questo. Qui, a un tiro di schioppo da una città di 800'000 abitanti, la seconda più abitata dello Stato dell'Alberta, c'è veramente tanto verde. D'altronde Edmonton vanta la più alta superficie pro capite di parchi dell'intero Canada. Il paesaggio ondeggiante, però, è a tratti alterato, oseremmo dire deturpato, da gigantesche trivelle, tra cui l'ormai inutilizzata Leduc Number 1, un monumento simbolo dell'intensissima attività petrolifera della città , che tra l'altro ha dato il nome alla squadra di hockey.
Poi, sull'altra sponda del North Saskatchewan River, ecco Edmonton. Lo skyline non è quello classico comune a moltissime città nordamericane. Non ci sono grattacieli altissimi né si individua un edificio che caratterizzi l'orizzonte. Ciò che vediamo è una sorta di via di mezzo, di compromesso: downtown Edmonton è un insieme di palazzi né troppo alti né troppo bassi.
L'architettura cittadina è contraddistinta da un'abile miscela di vecchio e nuovo. Il vecchio è spesso maestoso, come il Parlamento dell'Alberta, lontanamente somigliante al Campidoglio di Washington. Il nuovo è in parte piuttosto ardito, come il Municipio piramidale o l'entrata del campus del Grant McEwan College, con un enorme orologio su una facciata a specchio incorniciata da due torri poste in diagonale. E transitando su Whyte Avenue ci si rende conto che dopo cena non ci sarà pericolo di annoiarsi. Certo, il caldo è un'altra cosa, ma non crediamo che in questo periodo a Calgary, dove saremo venerdì prossimo, si prenda il sole sul lungofiume. Perché allora tutte queste voci di giocatori che evitano Edmonton come la peste?
Per una questione geografica, gli Oilers sono la squadra che in una stagione percorre più chilometri. È questo il motivo? Difficile. Negli anni Ottanta, il periodo in cui Edmonton si meritò il soprannome di City Of Champions, non pareva essere un problema.
La magia dei petrolieri inizia nel 1979, quando gli Edmonton Oilers, fondati otto anni prima, vengono ammessi alla NHL insieme a Québec Nordiques, Hartford Whalers e Winnipeg Jets nel quadro della fusione tra la stessa National Hockey League e la World Hockey Association (WHA). Ai petrolieri si consente di confermare quattro giocatori a scelta, tutti gli altro sarebbero diventati Free Agent e quindi liberi di vestire un'altra maglia. Uno dei quattro atleti messi in cassaforte si chiama Wayne Gretzky.
Per completare il resto dell'organico, l'allora General Manager e allenatore Glen Sather si concentra sul draft, e in tre anni cava dal cilindro Mark Messier, Glenn Anderson, Jari Kurri, Paul Coffey, Kevin Lowe e Grant Fuhr. Il nucleo della squadra che ancora oggi, un quarto di secolo dopo, rende orgogliosi i cittadini di Edmonton.
Tra il 1983 e il 1990 gli Oilers festeggiano cinque Stanley Cup. Ma oltre ai trionfi, è lo stile di gioco praticato da Wayne Gretzky e compagni ad aver reso immortale quella compagine. Uno spettacolo incredibile. Per sessanta minuti, i petrolieri premono sull'acceleratore, senza mai scalare una marcia. Gli avversari realizzano quattro reti? Bene, loro ne fanno cinque. Un carnevale offensivo da stropicciarsi gli occhi.
Grant Fuhr è stato uno dei più grandi estremi difensori della storia, ma le sue statistiche in quel periodo sono da portiere amatoriale, con una media di reti subìte che sfiora le quattro a partita e una percentuale di parate ben lontana dal 90%. Memorabile il suo modo di spiegare ciò che ci si aspettava da lui: "Il mio compito era quello di fare la guardia al fortino fino all'arrivo dei miei compagni. Di solito Paul Coffey era il primo, dopo il terzo rebound".
Gli Edmonton Oilers inizieranno la stagione 2009-2010 fra due settimane, in casa. Ci sarà subito la Battle Of Alberta, il sentitissimo derby contro i Calgary Flames. La squadra quest'anno affidata all'esperto Pat Quinn è giovane, con diversi giocatori molto promettenti, campioni affermati come Ales Hemsky e alcuni veterani di sicuro affidamento, come Sheldon Souray e Nikolai Khabibulin. Ma siamo lontani anni luce dal gruppo di futuri campioni assemblato da Glen Sather e, anche se nel 2006 i petrolieri sorpresero tutti approdando alla finalissima poi persa contro i Carolina Hurricanes, l'obiettivo massimo dell'organico attuale non può essere altro che la qualificazione ai Play Off.
Ma i tifosi di qui non sembrano lamentarsene. Non vivono a capo chino il ridimensionamento subìto dalla loro squadra. Non si lasciano influenzare dai grandi nomi che regolarmente vengono accostati alla loro franchigia, tranne poi firmare altrove. Fuori dal Rexall Place, lo stadio degli Oilers, sorge una statua di Wayne Gretzky che alza la Stanley Cup. Loro si sono goduti e hanno tifato quella squadra. E ne sono ancora orgogliosi.