The Perfect Unit

L'immenso Randy Johnson osserva la traiettoria di uno dei suoi famosi 'slider'

“Esistono persone di eccezionale talento. Io ero”"

Parole sante"parole sante quanto sgrammaticate, attribuite, in un volume intitolato "Son Dieci Assassini" i fantini del Palio", a colui il quale, Andrea De Gortes in arte Aceto, forte del record di quattordici vittorie, è unanimemente considerato il più grande fantino del secolo scorso, almeno all'ombra della Torre del Mangia.

Non sappiamo, ma possiamo provare ad immaginare, come se la caverebbe Randy Johnson (circa 207 cm.) montando "a pelo" un cavallo nervoso, spinto da un'intera contrada, nelle curve (quelle sì, assassine) di una piazza tra le più belle del mondo, che da ore ribolle del calore e delle speranze, di migliaia di persone stipate l'una contro l'altra, in barba al sole estivo che cala a picco e dell'odore di ascelle e di converse portate senza calze"

Quello che è certo è che parlando di persone dotate di eccezionale talento, atleti unici ed irripetibili, uno dei primi nomi che vengono in mente, è proprio quello di Randy "the Big Unit" Johnson, una delle figure più riconoscibili delle Majors, per via della statura assolutamente fuori dall'ordinario, un baffo non esattamente curato "à  la Clark Gable" e un braccio sinistro che ne ha fatto, al momento, il numero 4 nella classifica di ogni tempo per strikeouts messi a segno.

Solo uno dei tanti dati statistici che ne fanno un sicuro Hall of Famer, ma che da solo non spiega minimamente la grandezza di un giocatore che varcata la soglia dei quaranta anni ed a seguito di un 2003 funestato dagli infortuni, ha cominciato la nuova stagione nel mirino di chi, forse troppo frettolosamente, ne aveva annunciato il declino. Una strana situazione per il cinque volte Cy Young Award, dominatore, se uno ce n'è stato, del decennio 1993-2002, in cui ha collezionato 175 vittorie a fronte di 58 sconfitte.

Ma per il co-MVP delle World Series 2001 (in cui si consegnò alla leggenda vincendo gara 6 come partente e gara 7 come rilievo di Schilling), l'impresa messa a segno martedì scorso al Turner Field contro gli Atlanta Braves, rappresenta la vera e propria ciliegina su una torta che ammonta strati sempre più numerosi.

Due ore e tredici minuti sono state sufficienti a Randy Johnson per mettere a segno il proprio personale capolavoro, nella vittoria per 2-0 dei suoi D-Backs, in cui il mancino ex Seattle Mariners, è diventato il diciassettesimo giocatore della storia delle Majors a mettere a segno un "perfect game", scalzando niente meno che Cy Young dal trono dei più longevi ad ottenerlo, grazie ai propri 40 anni, 8 mesi e 8 giorni, a fronte dei 37 anni, 1 mese e 6 giorni che aveva nel 1904, l'uomo che dà  il nome all'ambito trofeo.

Una clamorosa prestazione quella di Johnson, che ritirava, uno dietro l'altro, i ventisette battitori affrontati, coadiuvato da una difesa che non era certo arrivata alla partita con le migliori premesse: the Big Unit provvedeva da solo a sedere tredici avversari tramite strikeouts, mentre la difesa, presentatasi ad Atlanta col poco lusinghiero primo posto nella National League per errori commessi, dava una mano al proprio pitcher grazie ad una partita senza sbavature.

117 lanci effettuati, di cui 87 strikes, confezionavano la miglior partita in carriera per un Johnson in completo controllo, che grazie ai 13 "K" (secondo dietro a Sandy Koufax che ne piazzò 14 nel suo perfect game del 1965) veniva a capo del proprio secondo "no hitter" in carriera, a quattordici anni di distanza da quello ottenuto coi Mariners nel 1990 ai danni dei Tigers. "Quella fu molto lontano dall'essere perfetta - ricordava Johnson - ero un giovane lanciatore che non aveva idea di dove la palla stesse andando". I due no hitter di Johnson ne sanciscono l'ingresso in un esclusivo e ben frequentato club, quello di coloro che hanno lanciato un no hitter sia nella American che nella National League, di cui fanno parte oltre al già  citato Cy Young, Jim Bunning, Hideo Nomo e Nolan Ryan.

Young, Koufax, Ryan, tutti nomi altisonanti, nomi che hanno fatto la storia del baseball, nomi rimasti nell'immaginario collettivo come vere e proprie pietre di paragone a cui Randy Johnson ha tutto il diritto di essere accostato. Certo che solo pochi mesi or sono, sembrava impossibile pronosticare un simile inizio di stagione per il numero 51 di Arizona: quello che per anni era stato un vero e proprio spauracchio per i battitori avversari, sembrava finalmente mostrare la corda, scalfito dal tempo nel fisico e forse anche nella psiche, appagato magari, come se un palmares del genere, in grado di spedirlo dritto dritto a Cooperstown, non potesse più essere arricchito.

E invece, come piace ricordare agli analyst d'oltreoceano, "c'è ancora benzina nel serbatoio". Presentatosi pienamente ristabilito agli spring training, dopo l'operazione al ginocchio affrontata durante la stagione 2003 ed una offseason spesa a lavorare in fase di riabilitazione, the Big Unit ha mostrato di essere tornato pienamente ai propri livelli, scontando solamente in fase statistica, la relativa debolezza della propria squadra non sempre in grado di supportarlo a dovere.

Mentre l'altra "living legend" Roger Clemens ammassava vittorie e grandi prestazioni, in Arizona si cominciava a parlare di scambiare Johnson per alleggerire il payroll, continuando quel processo di smembramento del team campione del 2001, che aveva compiuto un passo decisivo durante la offseason, con la partenza di Curt Schilling.

Proprio l'ultima uscita di Johnson (prima della partita di Atlanta) contro i Mets, aveva dato ulteriori segnali di una possibile incrinatura nel rapporto coi D-Backs, quando, a seguito della sconfitta per 1-0, il pitcher era esploso davanti ai giornalisti, consigliando ai tifosi di spendere meglio i soldi guadagnati col duro lavoro, piuttosto che venire a vedere simili prestazioni. Ma con la vittoria sui Braves, che interrompeva una serie di cinque sconfitte consecutive, sembrava poter tornare il sereno (e se non lì dove?) in quel di Phoenix e il manager Bob Brenly non poteva che dirsi d'accordo con il proprio asso: "aveva pienamente ragione" sarei stato preoccupato se non si fosse arrabbiato"ma adesso dobbiamo essere bravi a costruire attorno a questa vittoria e non lasciare che questa sia stata solo una bella serata"".

La media ERA di 1.98 nei 41 innings complessivi, lanciati nelle ultime sei gare, riconsegnano ufficialmente al baseball uno dei suoi grandi interpreti. Sembra difficile pensare che il perfect game di Johnson possa davvero mutare i destini di una squadra in fase di apparente ridimensionamento, ma anche qualora la perla vista martedì scorso al Turner Field, dovesse rimanere l'unica nota positiva di una stagione stonata, rappresenterebbe comunque una data storica per la giovane franchigia e per gli appassionati di baseball tutti, in attesa di sapere quale sarà  davvero il destino di uno dei più grandi lanciatori di sempre, cui l'età  non sembra aver intaccato l'approccio mentale: "Forse più avanti mi renderò conto di tutto questo"può sembrare un luogo comune, ma per adesso sono solo contento di aver vinto la partita".

Gli Yankees intanto, rimangono a guardare come sirene tentatrici, esercitando il loro melodioso (che qualcuno censuri l'autore please) canto e forse, vederlo in pinstripes potrebbe anche essere interessante"Ehm"D'accordo, lo ammettiamo"mentiamo sapendo di mentire, ma non riusciamo a toglierci di testa un interrogativo: gli sportivissimi tifosi di Atlanta, che dal settimo inning in avanti, con un traguardo storico di tale importanza alla portata del lanciatore avversario, hanno accantonato il tomahawk chop che li contraddistingue, cominciando a sostenere Johnson, avrebbero fatto lo stesso se questi avesse vestito la maglia della New York che vince? Modestamente, una risposta, crediamo di averla.

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