Quella sporca ultima meta

Burt Reynolds dietro le sbarre. La vendetta è stata compiuta. Anche se per un giorno solo.

QUELLA SPORCA ULTIMA META

Titolo originale : The longest yard

Anno : 1974

Genere : commedia

Regista : Robert Aldrich

Cast : Burt Reynolds, Eddie Albert, Michael Conrad, Ed Lauter

E' il primo film di successo sul football. Siamo nella metà  degli anni '70, il cinema sportivo americano, per quanto ci riguarda, ha esplorato solamente il baseball, mentre basket e football devono ancora incontrare la macchina da presa che li renderà  leggendari.

Sono già  usciti alcuni bei film (giocano a football anche i fratelli Marx in Horse Feathers nel 1932), e c'è la famosa sequenza finale di Mash, nel quale Robert Altman dirige una surreale partita sul fronte di guerra.

Ma poi ci pensa Robert Aldrich, già  autore di titoli di successo, come Quella sporca dozzina, e anche di un classico, Che fine ha fatto Baby Jane ?. Va da sé che questo film nasce, in un'epoca non sospetta, perlomeno non come oggi, per portare sullo schermo un sport allora in ascesa per popolarità  non solo per fare cassa al botteghino.

Il principio della storia va ricercato molto in profondità , addirittura oltre gli Stati Uniti. Siamo nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, nel 1942. Gli ufficiali nazisti organizzano in territorio d'Ucraina una partita di calcio tra militari tedeschi e una rappresentativa locale.

A Kiev l'atmosfera è spettrale. Sugli spalti i fucili sono puntati sul campo, l'aria si fa molto più testa allorché gli ucraini terminano il primo tempo in vantaggio. Negli spogliatoi fa irruzione un ufficiale tedesco che intima agli avversari di giocare per perdere.

L'orgoglio però non si vende. La partita finisce 5-3 per gli ucraini. La loro vita è segnata. L'intera squadra sarà  o fucilata o deportata nei lager.

Robert Aldrich non è stato l'unico a ispirarsi vagamente o direttamente a questa trucida storia. Tutti noi ricordiamo la mitica rovesciata di Pelè in Fuga per la vittoria, del 1981, con Silvester Stallone eroico portiere.

Qui invece non siamo durante la guerra, ma la crudeltà  è simile e uguale è l'immagine che ne deriva. Siamo in un carcere, in America. La partita è sempre la stessa. Non buoni contro cattivi, certo che no, perché sono pur sempre galeotti. No, la partita è orgoglio e dignità  contro soprusi e razzismo.

Paul Crewe è un ex campione NFL, caduto in disgrazia ma pur sempre benestante, con una moglie carina e una macchina sportiva. La sua colpa, per la quale fu espulso dai pro, fu aver fatto perdere di proposito la sua squadra per intascare i soldi delle scommesse. E' una brutta storia, perché così ci si perde la faccia.

Internato in carcere per ubriachezza e percosse alla dolce mogliettina annoiata dopo una spettacolare fuga sulla sua auto, poi gettata in mare, è costretto ad accettare la proposta del direttore del penitenziario di allestire una squadra di football per una gara contro i secondini. Il resto della storia va da sé.

I galeotti vinceranno la partita, in un giorno, l'unico, in cui hanno riacquistato la dignità  e l'orgoglio. Burt Reynolds recita con grande sicurezza la parte dello sbruffone sicuro di sé, prima deriso da tutti, poi leader, poi ancora isolato poi infine eroe.

La sua faccia di gomma è molto espressiva, sia da barbuto alcolizzato che si sollazza senza un fine nella propria vita, sia da carcerato scaltro e con la battuta pronta. Seguono il direttore e il capo delle guardie su tutti, mentre lasciano un po' a desiderare i personaggi che formano la squadra di piccoli grandi eroi.

Un pregio della pellicola è il tono, mai troppo comico, né certamente drammatico. Una commedia vera, perché fa anche riflettere sulle condizioni nelle carceri e sui rapporti razziali dell'America degli anni '70.

Chi conosce il football, oggi come allora, sa che non si può formare nessuna buona squadra senza un nutrito gruppo di atleti neri. Bene, il regista ha saputo rendere omaggio alla tensione della realtà , perchè i galeotti neri passano con molta lentezza prima da un pregiudiziale arroccamento in loro stessi (leggasi campo di basket vergine di uomini bianchi) fino all'integrazione per necessità . Anche loro non resistono alla chance di picchiare i loro aguzzini per un giorno.

Alla fine, come detto, vince l'orgoglio di chi ha sbagliato ma che vuole una seconda opportunità , e la dignità  di uomini che come tali in quello schifo di mondo non sono più trattati. Alla fine vince il film, bellissimo esempio di sport che si fa carico, a più livelli (l'integrazione tra bianchi e neri e la lotta contro i soprusi e la cieca violenza), di una realtà  sociale difficile.

Lo fa, ante litteram, prima delle storie strappalacrime della Disney, con una regia di qualità , con trovate intelligenti. Anche un grande critico come Tullio Kezich, certo di altra estrazione cinematografica (a proposito, leggete il suo Noi che abbiamo fatto la dolce vita, bellissimo) non può fare a meno di esaltare "la lunga sequenza della partita, composta ricorrendo al montaggio contemporaneo di varie inquadrature sullo schermo, un pezzo di cinema firmato".

Il football ne esce vittorioso.

Nel 2005 Adam Sandler e Chris Rock ne fanno un remake in chiave moderna, L'altra sporca ultima meta, ma anche nel 2001 gli inglesi produrranno Mean Machine, il nome della nostra squadra di criminali.

"Hey Pop, quella volta che hai pestato Hazen (il capo delle guardie poi diventato direttore ndr), ne valse la pena ?" chiede Crewe al vecchio carcerato. "Valeva 30 anni di galera ?".

Il vecchio non esita un attimo e risponde.

"Si, per me lo valeva".

Da lì il ritorno in campo. La vittoria di quella partita.

La vittoria di molto di più.

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