J.T. O'Sullivan ai tempi della Nfl Europa
Nel football è sempre stato facile concentrarsi sulle sole operazioni del quarterback, giocatore che più di ogni altro risulta esposto alle critiche e le cui giocate vengono costantemente analizzate e contro-analizzate da analisti, esperti, tifosi. Benché le sue prestazioni non dipendano, com'è ovvio, solo ed esclusivamente dalle sue capacità individuali, il "capitano dell'attacco" rimane comunque il cervello principale delle operazioni offensive, colui che dà via al gioco, che ne può modificare l'idea iniziale e, soprattutto, rimane il giocatore dal quale l'ovale prende il via dopo lo snap e prima di chiudersi tra le mani del terminale dell'azione.
E' stato detto più e più volte: una squadra ha bisogno innanzi tutto di una buona linea, serve un runningback capace di portare via pressione, controllare l'orologio e guadagnare terreno e punti via terra. Servono ricevitori in grado di non rovinare la buona esecuzione di una giocata, protezione del backfield, "timing" delle operazioni, eppure la zona più delicata, quella che alla lunga risulta essere il lato vincente o meno del gioco resta sempre quella: il quarterback. Coccolato e viziato se si vince, contestato e accantonato se le cose vanno male.
Nell'anno in cui i due interpreti del ruolo più citati nell'ultimo lustro finiscono inevitabilmente in quarta pagina (Tom Brady per infortunio e Peyton Manning per problemi non solamente fisici) emergono così nomi nuovi, alcuni dei quali attesi altri più sorprendenti, legati a storie che vivono nel dietro le quinte di una squadra la loro naturale essenza. La solita storia del complesso vincente insomma, che nasce nel coaching staff e finisce nell'insieme degli undici in campo.
Ci sono storie che fanno capire come il rischio, l'avventurarsi sullo sviluppo di un giovane in tempi brevi, alla fine arrivi a pagare i meritati dividendi. Altre storie raccontano di come sarebbe stato meglio aspettare ma, in ogni caso, è il risultato sul campo che dà la profondità dello studio effettuato su un atleta da scout, general manager e allenatori. Difficile, vivendo fuori dalle mura di uno spogliatoio, capire se e quando un giocatore sia veramente pronto al grande salto, ma è al contrario altrettanto semplice capire come, in alcuni casi, sia inutile temporeggiare su situazioni dannose per salvaguardare un giovane da rischi che, tutto sommato, nella vita ha deciso di correre a prescindere. Mettersi in gioco, per sé e per la squadra. Dimostrare il proprio valore, di essere da Nfl, di essere un quarterback.
Quest'anno sarebbe sin troppo facile citare Aaron Rodgers per definire il buon umore che accompagna i tifosi di Green Bay nonostante il doloroso addio a Brett Favre, mentre diventa inutile sottolineare come nel decollo verticale dei Dallas Cowboys degli ultimi due anni c'entri inevitabilmente l'inserimento di Tony Romo dietro al centro.
Così come salta subito all'occhio che Jay Cutler è, per ora, il motivo per cui la difesa di Denver può concedere qualcosa di troppo, e come a Buffalo il sorprendente 3-0 di inizio stagione sia da attribuire, tra gli altri, alle buone prestazioni di Trent Edwards, gettato nella mischia per tre gare nella sua stagione da rookie e subito pronto a fare il timoniere i questo 2008.
Sarà certamente facile parlare a posteriori ed è importante sottolineare che, alle volte, il rischio di gettare un quarterback in campo in un momento che, di solito, è considerato "prima del tempo" dalla maggior parte degli osservatori, dipende a volte da fattori diversi dalla sola scelta di un coach. Pensiamo a un veterano che si infortuna aprendo la strada alla sua riserva, ad esempio. Resta il fatto che misurare le qualità di un giovane sin dalle prime battute alla lunga paga sempre. O perché realmente si capisce il valore del suddetto riuscendo così a ragionare sulla costruzione della squadra futura in virtù delle qualità del proprio "signal caller" o perché, quando va male, si sa cosa cercare in giro al prossimo draft.
Perché un quarterback non è necessariamente il fenomeno della squadra ma ne è praticamente sempre il termometro che indica le possibilità di riuscita di una stagione. E' quello che quando sale la temperatura non deve perderti la partita, è quello che quando chiudono la porta alle tue corse che tanto facevano comodo per inghiottire secondi deve trovare il bersaglio giusto e tenere in vita l'azione. E' quello che non ha tempo di guardare ciò che accade intorno a lui perché deve misurare le yard che lo separano dalla vittoria. Ed è quello che, dopo il "two minutes warning", quando si sta inseguendo l'avversario, deve trasformarsi in una macchina perfetta, giocare l'esterno per fermare il tempo, far scivolare l'ovale fuori dalla mano il più rapidamente possibile, leggere le difese alla velocità della luce e trovarne, sempre, il punto debole.
Oltre agli anelli, fondamentali nella carriera di un grande, ciò che manda un quarterback dritto nella storia è, infatti, la capacità di rimontare partite già perse, la folle lucidità di gestire gli ultimi due minuti come fossero i primi due, come se, dopo quel terzo down, ci fosse un punt e ancora tanta partita da giocare e non la resa incondizionata della propria squadra.
Ma qui stiamo divagando. E stiamo tenendo inutili lezioni di teoria quando se ti esce un Ronnie Brown dal silenzio generale finisce che trovi un runningback capace di tutto che va a infliggere la peggior sconfitta interna che Bill Belichick abbia mai subito da quando allena i New England Patriots. In tutto questo gran parlare dell'MVP della domenica, Brown appunto, capace di lanciare, correre e ricevere, capace di segnare 4 TD su corsa e uno su lancio (effettuato) come solo all'hall of famer Paddy Driscoll riuscì prima di domenica scorsa, nel 1923 (sì, ventitré) indossando i colori dei Chicago Cardinals ci si dimentica del quarterback.
Se esce un Ronnie Brown, appunto, tutta la teoria di cui sopra è da gettare? Non proprio, visto che a Miami, mentre tutti seguivano le imprese del giovane runningback, Chad Pennington portava a casa un lavoretto niente male, completando 17 lanci su 20. Nessun touchdown, ma nessun errore e un attacco che è quindi rimasto quasi sempre vivo e che, soprattutto, non è caduto tra le mani dell'avversario. Il quarterback, insomma, c'entra sempre. E proprio perché alcune squadre vivono una situazione a dir poco instabile nella posizione (Chicago, ad esempio, ne cerca uno da vent'anni, Minnesota ha costruito un'armata offensiva pericolosissima per lasciarla nelle mani del mediocre Tarvaris Jackson prima di cedere e inserire il vecchio Gus Frerotte) viene da chiedersi perché non si rischi un po' più spesso, anche a costo di tornare sui propri passi due, tre, quattro volte.
Meglio rischiare una cantonata, due cantonate, o accontentarsi di un giocatore che non alzerà mai la soglia del livello massimo del gioco offensivo? Meglio chiudersi nel balletto dei veterani Rex Grossman, Brian Griese e Kyle Orton o lanciare, come a New York, immediatamente il giovane Eli Manning a discapito di un certo Kurt Warner, esporlo a critiche, errori e problemi giocando però tre playoff di fila vincendo un Super Bowl? Meglio fermarsi su Tarvaris Jackson perché è già da un po' in squadra o lanciarsi su un Trent Edwards e capire, in breve tempo, quanto ho speso al draft e quanto posso ricavare dall'operazione?
Si obietterà che esistono anche i casi negativi. Certamente, probabilmente più di quelli positivi. Il punto è che non possono passare anni prima di capire se e quanto l'investimento sia giusto o meno. Jake Plummer a Denver guidava un attacco che da anni svolgeva comunque il proprio dovere, ma era Jake Plummer e quando c'era da vincere lui, la partita, non te la riusciva a vincere. Dentro Cutler. Non è fortuna, è analisi, uno studio che va oltre il nostro comprendere ma che, ad esempio, dei tre grandi quarterback usciti dal draft 2006 ha portato solo nel Colorado una certezza mentre Vince Young e Matt Leinart annaspano senza indicare se possano o meno essere giocatori da Nfl. Un vantaggio per chi decide di aspettare, di non gettare il ragazzino nel Colosseo a battersi coi leoni troppo presto.
Sarà . Però chi rischia, chi cambia, prima o poi sembra riuscire a trovare il bandolo della matassa, chi si impunta su un nome, su un'abitudine, spesso rischia di brancolare nel buoi per stagioni. Del resto anche a Dallas, a furia di fidarsi di Bill Parcells, si sono sorbiti un Drew Bledsoe ben lontano dalle prove offerte quasi immediatamente da Tony Romo. E dove non arrivò il coach arrivò il grande capo, Jerry Jones, sceso sulla sideline durante una notte di football, contro i NY Giants, per "consigliare" il cambio in regia. Fortuna? Bravura? Chissà . Di certo avere Mike Martz come allenatore ha i suoi difetti ma anche un immenso pregio: capire subito quale quarterback può fare la differenza e crescerlo fino a livelli impensabili prima di allora.
A San Francisco attendevano l'esplosione di Alex Smith, naufragato invece contro l'ennesimo infortunio. E' uscito così J.T. O'Sullivan, ex Nfl Europa di proprietà dei Bears, passato dai Detroit Lions e finito ora sulla baia californiana. Frisco è 2-1, le polemiche dopo la prima giornata si stanno rapidamente spegnendo, così come la temperatura della panchina di coach Mike Nolan, che in due gare si è decisamente raffreddata. Dietro a questo anche O'Sullivan, 321 yard lanciate a Seattle, 189 contro Detroit, con 2 TD pass.
E O'Sullivan, nelle mani di Martz, si porta dietro la storia che accompagnava Kurt Warner ai tempi di St. Louis, quando come reduce della lega europea si trasformò, sotto la cura dell'offensive coordinator più pazzo della Nfl, in MVP, in quarterback da due Super Bowl, in fulcro del "greatest show on turf".
Presto, troppo presto, ci mancherebbe, ma nella stagione che, finalmente, interrompe per un po' di mesi la diatriba Brady-Manning, dimenticando colpevolmente altri importanti nomi come Ben Roethlisberger e Donovan McNabb, piuttosto che Brett Favre e Matt Hasselbeck, fa piacere leggere nomi nuovi che catalizzano l'attenzione, che lanciano l'attacco al regno dei più forti. Senza paura, né loro né dei loro allenatori, e anche se di contro ci sono sempre tanti fallimenti a farti riflettere sulle difficoltà del caso pensiamo che, osare on questo modo, per volere o per forza, possa portare alla lunga gli effetti sperati, possa creare una selezione naturale tra "chi può e chi no", generando i giocatori del futuro, dei prossimi anni. Pensiamo che osare, in un modo o nell'altro, paghi sempre nel ruolo più difficile, dove l'esame della partita e l'esperienza sul campo devono arrivare il prima possibile; non necessariamente nella stagione da rookie, ma l'unico modo di capire se quel ragazzo che inquadrano alla TV solo quando lo stanco titolare va a prendere disposizioni da un assistente vale qualcosa, è provarlo. Senza arenarsi in convinzioni che hanno già dimostrato di non pagare.
Se poi il vostro titolare è Peyton Manning e quel giovane inquadrato di rado Jim Sorgi… beh, va da sé che abbiate già rischiato a vostro tempo e vi sia andata bene. Dopo di voi qualcuno scelse Ryan Leaf e voi non avete più nulla da sperimentare per un po' di anni.