I Chicago White Sox del 1919. Guardateli bene, otto di loro sono infami traditori
OTTO UOMINI FUORI
Titolo originale : Eight men out
Anno : 1988
Genere : drammatico/sportivo
Regia : John Sayles
Cast : David Strathairn, John Cusack, Charlie Sheen, Christopher Lloyd, D. B. Sweeney, Michael Lerner, Clifton James
Il baseball delle origini si fonde col mito e col fondamento di una nazione. Quando nel 1920 si scoprì che nelle World Series dell'anno precedente alcuni giocatori dei White Sox truccarono le partite per guadagnarci sulle scommesse non crollò solo la purezza del gioco.
Vacillarono con essa le radici stesse degli Stati Uniti d'America.
Il baseball è metafora della nazione americana. Il presentarsi da soli al piatto. Vincere con la propria battuta ma solo tramite le corse a casa base dei propri compagni. A meno di non sparare un home-run, supremazia individuale dell'attaccante come uno strike out del lanciatore.
Il liberalismo più sfrontato nella cornice del gioco di squadra, di una patria formata (non senza traumi) per forza di cose da gente di provenienza molto diversa tra loro. Il pragmatismo dei numeri, la voglia di razionalizzare tutto e le chiacchiere spensierate e le grandi abbuffate in tribuna.
Eight men out racconta la storia di quei White Sox furfanti ma ingenui e con loro un'epoca tanto lontana quanto sempre attuale. La molla che fa scattare il piano è, come quasi sempre, la bramosia di denaro. I giocatori sono malpagati, il proprietario è un tirchio tiranno e allora bisogna
correre ai ripari.
Uno di loro ha stretti contatti con l'ambiente malavitoso, il lanciatore Eddie Cicotte non ha ricevuto il bonus di 10.000 $ per la trentesima gara vinta in stagione perché il capo, Charles Comiskey, fa di tutto perché non lo possa ottenere.
Il terreno è gravido. D'altronde il premio vittoria tanto aspettato non si rivela altro che quattro bottiglie di champagne "svanito".
Alla fine ci si mette d'accordo in otto. Si decide di perdere intenzionalmente le World Series contro i Cincinnati Reds, o almeno, si cerca di farlo, giocando ai finti tonti mentre il resto della squadra, allenatore compreso, va nella direzione opposta.
E' proprio questo il tratto più importante della storia, prima che del film. La pellicola però scorre troppo velocemente e allora la dicotomia interna nello spogliatoio non emerge in tutti i suoi contrasti ma si limita a occhiatacce vaghe e urla in campo contro il compagno che gioca male.
In questo la figura dell'allenatore è fondamentale. Solo una volta non fa partire il suo asso Cicotte ma ci ripensa, non dice niente e torna nel dugout.
Del resto i rumors di una possibile truffa erano forti. Parte della stampa e poi anche del pubblico iniziano a sospettare qualcosa ma la resa è ancora troppo accennata.
Il film ha la bontà di non essere un racconto romanzato ed edulcorato, ma la pretesa di ricostruzione analitica con piglio quasi giornalistico è lasciata cadere nel vuoto.
Se tale voleva essere allora mancano del tutto descrizioni più approfondite del contesto storico (non basta la musica jazz di sottofondo) e di Chicago in particolare, come soprattutto la resa psicologica dei personaggi.
Tutto scorre troppo velocemente, la cronaca essenziale si fa fredda. Una freddezza non scaturita dall'esuberanza dei dettagli ma all'inverso dalla trascuratezza nel caratterizzare emotivamente i protagonisti, non rendendoci mai partecipi veramente delle sorti di uno di loro.
E' abbozzato il proprietario, sono abbozzati tutti i giocatori con l'eccezione in parte di Cicotte, i malavitosi, l'allenatore soprattutto e in ultimo anche i bambini di sfondo, che dovrebbero rappresentare il sincero amore per il gioco ma servono solo per infilare alla fine la famosa battuta di uno di loro a Shoeless Joe Jackson in uscita dal tribunale. "Say it aint' so, Joe".
Per chiarirci meglio, nessun individuo emerge a tutto tondo dal gruppo, così i troppi protagonisti rendono il quadro affollato e la pretestuosità d'un racconto corale (che pure è tale nella realtà ) soffoca la chiarezza espositiva.
Per fare un esempio "alto", Lucky Luciano di Francesco Rosi è sovrabbondante di cronaca dettagliata, è freddo, mai coinvolgente emotivamente.
Il caso Mattei invece, dello stesso regista, mantiene quell'attenzione nel racconto, è una pagina di giornale, asciutta, ma non registra soltanto la realtà . La reinterpreta, la dipinge dolcemente.
Non trascende mai al romanzo, né al melodramma, né ad ogni tentazione teatrale.
Si mantiene sobrio ma focoso, come la Grace Kelly migliore che il maestro Hitchcock definì "ghiaccio bollente". Ebbene, Eight men out si mantiene nel primo tipo di questo genere di film, pur con le debiti proporzioni date dall'avventuroso accostamento al cinema di Rosi.
Gli otto "venduti" saranno alla fine scoperti e allontanati a vita dal baseball. L'ultima sequenza è un regalo a Shoeless Joe Jackson, la stella della squadra.
Anche qui, non si capisce perché finire con lui quando per tutto il film il miglior giocatore e idolo dei tifosi è sola una macchietta. Per di più, ricostruendo a posteriori questo scandalo è colui che avendone un pieno dentro e uno fuori risulta il più tormentato del gruppo.
Non si è mai saputa la verità sul suo coinvolgimento, resta il mito di colui sul quale il più grande di tutti, Babe Ruth, modellò la sua battuta.
Finisce così, in un campo anonimo della provincia americana, a fare ancora meraviglie nelle serie minori sotto mentite spoglie.
Il suo giro di mazza è eleganza e potenza insieme. Se c'è un merito del regista è di aver reso molto appassionanti le sequenze di gioco, realistiche, davvero belle. Per di più in uno stadio che sembra davvero degli anni '20, con le divise originali, con la polvere che si alza, i segnapunti manuali e
tutto il resto.
In fondo questo film è altamente consigliato a chi vuole informarsi della storia nota come Black Sox Scandal. In esso leggerà facilmente tutti i fatti dall'inizio (ma si parte già cospirando, senza un profondo background) fino al processo (sequenze un pò troppo noiose).
Se si volesse di più meglio lasciar perdere. Rimane la storia e il fallimento di una pretesa.
Rimane il volto del gangster ebraico Arnold Rothstein, infante ciccione tra le risa dei compagni e maturità da rispettato boss. Peccato però, Chicago, gli anni '20, la malavita organizzata. Vi viene in mente qualcosa ?
Già , Al Capone. All'epoca dei fatti aveva solo vent'anni, ma avrebbe in fretta scalato i vertici della mafia cittadina e non solo. Ma non diamo alla regia colpe non proprie.
Anzi, facciamo una bella cosa. Come Shoeless Joe Jackson, sciocco e illetterato, firma con una X, anch'io, senza saper né leggere né scrivere, vi invito a vedere questo film.
Ne ricaverete una storia. Dove non c'è cultura ci può essere anche la chiarezza, forse la purezza che si è persa e si fatica a scovare. Come quella del bambino sulle gradinate del tribunale.
Ancora, più forte di prima, i sogni che si stanno infrangendo contro la cruda realtà . "Say it ain't so, Joe".
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