Ray Liotta interpreta Shoeless Joe Jackson, sul cui ruolo nello scandalo si discute ancora oggi.
L'UOMO DEI SOGNI
Titolo originale : Field of dreams
Anno : 1989
Genere : fantastico
Regista : Phil Alden Robinson
Cast : Kevin Costner, Burt Lancaster, James Earl Jones, Amy Madigan, Ray Liotta, Frank Whaley.
"Se lo costruisci, lui tornerà ".
Con questa voce fuori campo, in tutti i sensi, si apre il film. Dove ? Siamo nel cuore agricolo degli Stati Uniti, l'Iowa. Kevin Costner è Ray Kinsella, agricoltore sulla trentina con moglie e bimba a carico. Un pomeriggio, tarda sera, sta lavorando come al solito nei suoi campi. Poi all'improvviso sente una voce.
"Se lo costruisci, lui tornerà "
Devo essere sincero, non mi aspettavo una storia fantastica e sulle prime sono rimasto un po' deluso. Poi mi sono lasciato andare e come Kinsella ho creduto in questo film come lui nella forza dei sogni. Mamma mia, quanti temi in questa pellicola del 1989 (lo stesso anno della commedia Major League) candidata addirittura agli Oscar come miglior film.
E' un film sull'America, sul baseball e sulla sua storia, sui sogni, le passioni, i rimpianti, il rapporto padre-figlio. Andiamo per ordine. E' soprattutto un favola, la favola più bella mai raccontata sul baseball. Se avete visto questo film e avete dei bambini raccontate loro questa storia, saprà commuovere ed insegnare allo stesso tempo.
Bene quindi, la favola, il baseball, l'America profonda, i sogni. "Is this heaven ?" No è l'Iowa.
Ecco, dove eravamo rimasti. Già , Ray Kinsella sente questo strana voce. Ma cose dovrà costruire mai ? Un campo di baseball, giusto in mezzo alla sua piantagione di mais, il paesaggio più frequente del rurale Iowa, stato come immaginerete quasi dimenticato dal resto degli USA.
Rispondiamo alla seconda domanda che la voce misteriosamente propone. Chi dovrà tornare ? La risposta prende le sembianze oramai lontane di un vecchio campione dei Chicago White Sox, il leggendario Shoeless Joe Jackson, interpretato da Ray Liotta.
Ray Kinsella non può credere ai proprio occhi. Nel campo da lui costruito, nel cuore dell'Iowa, si materializza un uomo scomparso nel 1951, una leggenda del baseball dei tempi d'oro, quando era davvero religione di stato.
La leggenda è ambigua, per lo meno multipla. Sul campo innanzitutto, ma non per la storia ufficiale delle Majors. Se andate sul sito MLB per ricercare le sue statistiche il suo nome non c'è, soprattutto lassù, al terzo posto all-time per media battuta, .356. Ma l'ombra che avanza, quell'ombra che tutt'oggi lo pone al di fuori della Hall of Fame risale alle World Series del 1919.
E' il famoso Black Sox Scandal. Otto giocatori sono accusati di aver truccato le partite delle World Series contro i Cincinnati Reds per intascare i soldi delle relative scommesse. Uno smacco, un colpo al cuore di milioni di fedeli. E' come se oggi si scoprisse che un altro prelato in Vaticano abbia un amante. Uno shock.
Lo stesso sentimento che animava il bambino della celebra leggenda secondo la quale Joe Jackson fu avvicinato fuori dal tribunale dal piccolo fan con queste parole : “Say it ain't so, Joe”. Purtroppo era tutto vero.
Ray Kinsella però ricorda le parole di suo padre e come nelle più bella tradizione che può benissimo risalire ad Omero, tramanda la leggenda alla sua piccola figlia. Niente di meglio : Babe Ruth si è ispirato per la battuta sullo stile di Shoeless Joe Jackson. Come diceva Peppino, ho detto tutto. Se almeno conoscete un attimo l'importanza del mito di Babe saprete dare anche le giuste proporzioni a quello di Jackson.
Il baseball è questo in America, storia, tradizioni, leggende, rituali, numeri scolpiti nel marmo, un padre e un figlio che giocano nel giardino di casa. Già , Ray Kinsella ha un rimpianto, non aver amato o almeno non aver mai dimostrato abbastanza il suo amore per il padre.
Non aver mai giocato con piacere a baseball con lui è l'immagine vivida di questo rimpianto. E allora ecco che scopriamo man mano la verità . Nel campo da lui costruito non doveva tornare solo il grande Jackson ma soprattutto il padre, che aveva lasciato dopo un litigio per andare a studiare a Berkeley, nella California infuocata dalle proteste giovanili del '68.
E allora è anche questo il film, un quadro dell'America nelle sue contrapposizioni profonde, perché se trovate un altro paese al mondo dove sotto la stessa bandiera c'è l'agricoltore arretrato dell'Iowa e il broker di Wall Street sotto i grattacieli di Downtown, i bianchi e i neri, gli ispanici e gli italiani, ditemelo subito perché mi è ignoto.
Il film, lo dico ancora adesso con colpevolezza, è tratto da un romanzo del 1982, Shoeless Joe di W.P. Kinsella, il cui scopo non era tanto quello di raccontare una storia sul baseball quanto di disegnare una metafora favolosa del baseball come la possibilità di esprimere le proprie passioni e di realizzare i propri sogni. E poi, metafora della metafora, il baseball come espressione storica e più vera dell'America.
"L'unica costante in tutti questi anni è stata il gioco del baseball. L'America è stata travolta da mille rulli compressori, è stata cancellata come una lavagna, ricostruita e ricancellata, ma il baseball ha segnato il tempo. Questo campo, questa partita, sono parte del nostro passato, ci ricordano tutto quello che un tempo era buono e potrebbe tornare ad esserlo".
Morandini stesso, il recensore che amo di più (nonostante Amanti perduti sia per lui un capolavoro eterno), definisce il film "americano a 18 carati". E difatti è difficile capire fino in fondo per un italiano il viaggio di Kinsella a Fenway Park per trovare uno scrittore nero ridotto all'auto-isolamento, scorbutico e nostalgico. A lui dobbiamo le parole di prima e la prossima storia.
Il film è la ricerca continua da parte del protagonista delle risposte da dare alle insistenti voci che riceve misteriosamente e magicamente in ascolto. Sul tabellone elettronico del Fenway Park compare una scritta, il viaggio prosegue verso il Minnesota. Qui è di casa un medico, tale Archibald Graham, interpretato dal grande Burt Lancaster, mitico compagno di ballo di Claudia Cardinale ne Il gattopardo.
Il dottore era Moonlight nei suoi anni giovanili, passato alla storia per aver giocato una sola partita nelle Majors con i New York Giants, il 29 giugno del 1905. Anzi, due soli innnig per essere più precisi, contro i Brooklyn Superbas, antenati dei Dodgers.
Nel nono inning la grande occasione, aspettata per tutta una vita, ovvero la prima apparizione al piatto. E' on deck, sta battendo il suo compagno Claude Elliot, il pitcher, ma questi spara una volata in campo esterno. Eliminato. Niente male, no ? Peccato, era il terzo out. Partita finita. Carriera finita.
Il sogno che diventa rimpianto. Come quello del nostro scrittore nero in disgrazia, che da bambino immaginava nel suo letto di entrare all'Ebbets Field a Brooklyn e giocare con i Dodgers. Peccato anche qui, i Dodgers se ne vanno a Los Angeles per la stagione 1958, lasciandosi indietro la disperazione del distretto natale di Spike Lee. Adesso che ci penso lo stesso volo che ha preso quest'anno Joe Torre.
L'Ebbets Fields verrà demolito, come oggi in un colpo solo sia lo Yankee Stadium che lo Shea Stadium, e addio al sogno di calcare quell'erba.
Bravissimo James Earl Jones, burbero e nostalgico, la memoria storica dal cuore d'oro, credibilissimo Kevin Costner, Burt Lancaster alla sua ultima apparizione di una grande carriera. La sceneggiatura non-originale è accattivante, il film è un atto d'amore, non pecca mai di retorica, non esagera con gli effetti speciali.
Riprende in chiave moderna e senza sfigurare il Capra che racconta le sue favole, e come tale va visto, rifiutando ogni logica. Mi è piaciuto, anche se mi aspettavo tutto un altro film, fa appassionare alla storia del gioco, alla sociologia dell'America con un viaggio pure fisico oltre che fantastico.
Il viaggio, già , nell'America hippy contro quella razzista, nel passato, nella storia del baseball, il viaggio come dimensione fantastica, perché oltre il campo esterno si realizzano i sogni e si estirpano i rimpianti. Ognuno sogna di raggiungere questo spazio che non c'è, nel tempo in cui siamo o saremo, fuori campo.
Fuori campo, come la voce del film. Fuori campo, ovvero Home-Run, corsa verso casa.
E in ogni casa convive la storia con il sogno, cambia solo sfondo. Qui è l'America e il baseball, e mai legame tu tanto bello. Tornare a casa è un po' come realizzare i propri sogni, nel rispetto della storia, perché il sogno si coltiva dal principio e in fondo realizzare un sogno è tornare ragazzi.
"Se lo costruisci, lui tornerà "
Andare a casa è sempre un viaggio di ritorno.
p.s. : mi fa piacere che sia piaciuto anche a Walter Veltroni, il segretario del PD. Yes we can, vi rimando al suo breve commento del film : Veltroni su Mymovies
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